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Il calo dei Memphis Grizzlies: licenziamenti, cambiamenti, problemi, mediocrità.

I Memphis Grizzlies giocheranno il play-in, e questa è una notizia indubbiamente deludente per una squadra che si è contesa il secondo posto nella Western Conference per gran parte della stagione. La flessione nel rendimento dell’ultimo mese è stata semplicemente inaccettabile (solo 4 vittorie nelle ultime 14 partite), e non sono mancate tensioni interne tra giocatori e giocatori, ma anche tra giocatori e staff tecnico, tant’è che Taylor Jenkins, ormai ex capo allenatore della squadra, insieme all’head of player developement, Noah LaRoche, sono stati sollevati dal loro incarico il 29 marzo 2025. E pare proprio che il terremoto di licenziamenti sia scaturito dalle frizioni tra quest’ultimo e Ja Morant.
Il sistema offensivo di Noah LaRoche
I Memphis Grizzlies hanno stregato analisti ed appassionati quando nella prima parte di stagione hanno attuato un gameplan piuttosto curioso e decisamente poco utilizzato in ambito NBA: un attacco, pare fortemente voluto dal suddetto LaRoche, consistente nel quasi totale annullamento del gioco in pick and roll, ball screens e handoffs in favore di movimento, fluidità e tagli senza palla.
L’idea di LaRoche era già stata messa in pratica nelle giovanili, per la precisione nel Saint Joseph College of Maine.
Questo attacco aveva già attirato l’attenzione in tempi non sospetti del noto ed amatissimo youtuber Coach Daniel, oggi impiegato stabilmente in NBA.
Fino alla pausa dell’All Star Weekend i Grizzlies sono stati stra-ultimi in frequenza di utilizzo del pick and roll, una soluzione usata in appena il 9% dei possessi, con gli handoffs che scendevano sotto il 2%. (Dati forniti da Synergy).
I risultati però, erano tutt’altro che malvagi: un 118.7 di offensive rating che faceva sedere stabilmente i Grizzlies tra i 5 migliori attacchi della NBA.
In video una disamina del noto analista Ben Taylor riguardo questo strano, ma efficace attacco.
Le Frizioni
Ja Morant su tutti, alla lunga, ha criticato le soluzioni offensive sposate dal suo allenatore, tacciandole di essere eccessivamente limitanti per il suo coinvolgimento nell’attacco. Morant infatti, sebbene un inizio non negativo, e probabilmente una qualità mai vista nelle sue letture da passatore (ne abbiamo parlato qui) stava facendo registrare la sua media punti più bassa dai tempi del suo secondo anno (solo 20.4 fino a fine febbraio), il suo minimo in carriera in percentuale dal campo (44.5%), avendo ridotto di molto le sue conclusioni al ferro (il 23% rispetto al 30% del 2023 e al 33% del 2022), ed il suo minimo in tocchi per partita (65.7 contro i 77 di due anni fa). Un Morant insomma, al quale erano state affidate in misura molto minore le chiavi dell’attacco di Memphis, decisamente meno dipendente dal suo leader. Snocciolando un altro po’ di dati vediamo che nel 2023 Morant aveva la palla in mano nel 48% del tempo in cui era in campo, quest’anno sotto l’attacco di LaRoche il suo dato è calato vertiginosamente al 35%. Rimanendo strettamente legati al pick and roll, Morant ha gestito l’azione da palleggiatore circa in 6 possessi a partita, un quarto dei suoi totali, dato più che dimezzato rispetto ai 12.9 (la metà dei suoi possessi totali) del 2023.
Il supporto di Morant verso questa nuova tipologia di attacco è venuta meno con il venir meno dei successi…o forse ne è stata la causa. Si perché nelle ultime settimane abbiamo visto un Morant molto più simile al vecchio sé stesso, e questo è stato decisamente un bene per il suo gioco e forse anche per tutti i fan che il play dei Grizzlies ha fatto innamorare negli scorsi anni e che magari avevano leggermente spento la fiamma d’amore verso il loro pupillo.
L’era di Tuomas Iisalo
Il licenziamento di Jenkins e LaRoche è arrivato come un fulmine a ciel sereno, ma dopo alcuni giorni, i retroscena sull’evento che ha scombussolato il mondo NBA, si sono accresciuti in numero sempre più numeroso, ed il nome di Ja Morant è spuntato prepotentemente tra i principali artefici dell’operazione.
Il sostituto? Tuomas Iisalo, il vice allenatore finlandese promosso a coach ad interim. Non sappiamo ancora se sarà la soluzione definitiva dei Grizzlies o solo un momentaneo traghettatore, fatto sta che il suo modo di giocare, già sfoderato in Europa con il Paris Basketball e passato tutt’altro che inosservato (vittoria di Eurocup con premio di coach dell’anno nella suddetta competizione oltre che nella LNB Pro A, la massima lega francese) è totalmente all’opposto di quello che Jenkins e LaRoche avevano fatto vedere, fortemente incentrato sul pick and roll (considerato nella Nba moderna indispensabile a tal punto da dover essere per chiunque il modo principale per creare vantaggio) e la difesa a uomo a metà campo. Queste novità si aggiungono ad una filosofia basata sul ritmo elevatissimo, filosofia che già aveva introdotto in qualità di vice durante il corso della stagione e che ha spinto la franchigia del Tennessee ad essere la prima in NBA per PACE (103.3 possessi di media).
Le conseguenze sono state decisamente positive per Morant, che ha aumentato il suo minutaggio e la sua produzione, ma con essa anche la sua efficienza, dimostrando di essere un giocatore che ha bisogno di quantità per garantire anche qualità. Ja è più coinvolto nell’attacco, ha aumentato il suo minutaggio (da 29 a 33 minuti di impiego a partita), la sua media punti (da poco più di 20 a 29.8), la sua true shooting% si è alzata da un brutto 54.5% al 60.3%, portandolo sopra la media della lega, i suoi tocchi di media a partita sono saliti a 75, in linea con le sue precedenti stagioni, ed i suoi possessi in pick and roll sono tornati.
Chi ha beneficiato del cambiamento?
Il partner preferito di Morant per i pick and roll sembra proprio essere il mastodontico rookie da Purdue Zach Edey, solido bloccante e rim finisher, dall’alto dei suoi 224 cm. Qui lo vediamo in alcune clip sia servito da Morant che in posizione per correggere a rimbalzo gli errori di quest’ultimo.
Questo suo ruolo fondamentale, di quasi unico lungo capace di giocare a due con Morant, ha visto schizzare il suo minutaggio dai 20 minuti di impiego con coach Jenkins ai 30 con i quali gioca con coach Iisalo. Le sue cifre in questo frangente? Oltre 9 punti, oltre 15 rimbalzi e quasi due stoppate di media.
Pregi e difetti
Purtroppo non è tutto rose e fiori e la presenza di Edey in campo porta anche più di qualche lato negativo. Il lungo di Purdue infatti è estremamente rigido nei movimenti, e difensivamente ha enormi difficoltà nel chiudere sugli esterni.
Perciò, spesso lo vediamo rifiutare il cambio, e nelle situazioni di pick and roll, rimanere eccessivamente profondo, non opponendo alcuna resistenza al palleggiatore che decide di tirare oppure al bloccante che si apre in pop per punirlo. La sua riluttanza nelle uscite è ben evidenziata in questa clip.
In più il rookie dei Grizzlies non è esente da “dormite”, cali di concentrazione e momenti in cui perde totalmente il suo uomo.
La sua presenza ha reso i Memphis Grizzlies ancor più vulnerabili ai tiri da tre punti di quanto già non fossero e la scelta di andare controcorrente rispetto alle indicazioni dei giorni precedenti proprio nella gara contro i Boston Celtics, facendolo giocare solo 16 minuti, non è stata casuale. I 37 tentativi dall’arco subiti dalla squadra del Tennessee erano già molti, ma con il cambio di coaching staff, e con l’aumento di minutaggio di Edey sono aumentati a 42 (sarebbe il massimo in NBA). Gli avversari dei Grizzlies hanno anche una maggior percentuale di conversione con Edey in campo rispetto a quando è seduto (35.7% vs 37.2%), rendendo la difesa dei Grizzlies estremamente problematica da sostenere. Il defensive rating della squadra è passato da 112.3, uno dei primi 10 in NBA, a 118.5, in proiezione il quinto peggiore in NBA. Sebbene i dati con Edey in campo rispetto a quando è seduto non siano terribili, la sua staticità, mischiata ad una serie di errori di comunicazione causati da overhelping anche del resto della squadra, ha portato ad un crollo difensivo dei Grizzlies.
È probabile che la difesa a uomo di Iisalo possa alla lunga salvare i Grizzlies da questa situazione, ma i progressi, come dimostrano i dati degli ultimi giorni, non avvengono nell’immediato, e gli errori di comunicazione, oltre alla già citata rigidità di movimento di Edey, continueranno ad influenzare il rendimento dei Grizzlies ancora per un po’.
Jaren Jackson Jr.
Arriviamo infine all’elefante nella stanza.
Jaren Jackson Jr è stato nettamente il miglior giocatore della prima parte di stagione dei Grizzlies, come la sua convocazione all’All Star Game testimonia. Il lungo dei Grizzlies è stato a lungo candidato a vincere sia il premio di Defensive Player of The Year che di Most Improved Player ed ha fatto di necessità virtù mettendo in scena tutti i miglioramenti maturati nella scorsa stagione dei Grizzlies, enormemente problematica poiché la squadra è stata falcidiata dagli infortuni. La franchigia di Memphis lo scorso anno è finita terzultima nella Western Conference, ma Jaren Jackson Jr. a posteriori è stato forse l’unico lato positivo della stagione. La quarta scelta assoluta al draft 2018 si è abituata a giocare senza ulteriori creatori di gioco nella propria squadra, e caricato di maggiori responsabilità ha dovuto affrontare tutte le attenzioni della difesa spesso partendo con la palla in mano per giocare in isolamento. La sua frequenza di azioni in isolamento è salita da 5 a 14.7%, ma chiaramente le sue percentuali dal campo si sono abbassate non giocando più da play finisher ma da iniziatore, dovendo sostenere tutto il peso dell’attacco sulle sue spalle. Jackson ha fatto registrare il suo massimo in carriera per media punti (22.5), ma con una true shooting% tutt’altro che esaltante (il 55%).
Con il ritorno di Ja Morant e Desmond Bane nella lineup in questa stagione, Jackson non ha abbandonato le sue azioni in isolamento, mantenendo la frequenza al 13.5%. Quello che è cambiato è il carico offensivo che il lungo dei Grizzlies ha dovuto sostenere, decisamente ridotto. Fino al suo infortunio avvenuto ad inizio marzo, Jackson stava disputando una stagione da superstar, segnando oltre 23 punti di media in meno di 30 minuti di impiego con una true shooting% del 60%, ed aveva messo in mostra una serie di soluzioni offensive aggiunte al suo bagaglio tecnico che lo rendevano probabilmente la miglior opzione per Memphis a difesa schierata:
Partenza a sinistra, virata e conclusione a destra. La sua grande flessibilità di anche gli permette di muoversi con agilità e mantenere un baricentro basso nonostante le sue gambe molto lunghe ed il busto massiccio. Questa caratteristica gli permette una volta essersi avvicinato a canestro di allungarsi o esplodere verso l’altro con forza.Partenza a sinistra, bump abbassando la spalla e gancio sinistro, probabilmente il suo movimento preferito nonostante sia un destro naturale. Sana vecchia bully-ball che viene adoperata indistintamente anche contro i migliori difensori della NBA, quasi à la Zion Williamson.
Crossover e passo d’incrocio. Il ball handling è nettamente migliorato, solo due anni fa queste azioni non gli sarebbero state così naturali da eseguire. Le sue percentuali di tiro nei pressi del ferro erano davvero eccellenti (71% e 54% nello short mid range).
Come detto Jaren gioca meno di 30 minuti di media e, deresponsabilizzato da molti compiti offensivi, aveva disputato delle settimane al livello del suo 2023, anno in cui ha vinto il Defensive Player of The Year.Anche difensivamente i numeri di Jackson erano veramente notevoli: nonostante stoppi molto meno di due anni fa, contro di lui gli avversari hanno una percentuale attesa di realizzazione al ferro del 14% in meno rispetto alla media, uno dei dati migliori della NBA, ed il Defensive rating com lui in campo al momento dell’infortunio era migliore di 6.5 punti rispetto a quando era seduto.
Al rientro dall’infortunio e con una nuova situazione da dover affrontare il suo impatto è cambiato in peggio: come abbiamo visto nella clip precedente anche lui non è esente da disattenzioni e da overhelping, sono tornati a manifestarsi i suoi ben noti problemi di falli (dal rientro quasi 4 a partita, più in linea con le sue prime stagioni in NBA che con l’inizio di stagione) ed in difesa, complice la situazione disastrosa del resto della squadra, non è riuscito ad impattare come gli si richiede.
Offensivamente anche sembra non trovarsi a suo agio: i suoi possessi in isolamento sono rimasti identici, ma le penetrazioni a partita si sono ridotte da 12.4 a 8.8, i suoi tocchi da 51 a 40 di media a partita, sono calate la sua percentuale di coinvolgimento nell’attacco ed il tempo in cui ha la palla in mano. I suoi punti sono scesi da 23.1 a 18.8, la sua percentuale di realizzazione da 2 punti è calata dal 56 al 47% e molte delle soluzioni precedentemente elencate gli riescono molto meno bene.
L’impiego di Jaren Jackson Jr. è cambiato anche tatticamente, come vediamo nel seguente video:
Ricominciare ad usare i pick and roll ha costretto JJJ ad agire come bloccante, spesso aprendosi a ricciolo per ricevere in pop e tirare da tre punti. È aumentata notevolmente la sua frequenza di tiri in spot up, ovvero triple su ricezione, che anche se convertite con percentuali assolutamente dignitose, sono forse una soluzione un po’ troppo preponderante per un giocatore che gradisce molto più penetrare con l’area libera ed usare il suo tiro da fuori con alternativa. Il messaggio sembra chiaro, così come a Jackson, l’area libera serve anche a Morant, ed il voler privilegiare gli attacchi gestiti da quest’ultimo rispetto al centro dell’Università di Michigan, riduce a molti più tiri da fuori la dieta offensiva di Jaren.
I numeri non fanno mistero di come la produzione offensiva di JJJ risenta fortemente della presenza del play da Murray State University; negli ultimi due anni la media punti x75 possessi di Jackson è passata da 20 punti quando gioca con Ja a oltre 27 quando il suo play è lontano dal campo da gioco.
Conclusioni
Quanto di questo calo sia dovuto a strascichi lasciati dall’infortunio e quanto al nuovo sistema di gioco è al momento troppo difficile da dire, le partite sono state fin troppo poche per poter dare un giudizio adeguato.
Certo, non dovesse essere un problema fisico, ma tattico, dovesse Jackson soffrire il nuovo sistema di gioco ed anche lo stile del suo compagno di squadra Ja Morant, e dovesse tutto questo andare a discapito delle ambizioni della squadra allora la franchigia dovrebbe trovarsi davanti a delle scelte. In ogni caso, gli errori dettati chiaramente dalla cattiva esecuzione di JJJ sono chiari ed evidenti, ed allora la domanda sorge spontanea: che sia stato solo un periodo buono? O forse il suo tocco è davvero migliorato molto rispetto al passato, forse deve ritornare nella condizione fisica ottimale tale da permettergli di guadagnare nuovamente esplosività? Jackson farebbe bene a darci delle risposte al più presto, perché i tempi stringono e la postseason è alle porte.
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A quali Pelicans dobbiamo credere?

Negli ultimi mesi nessuna squadra ci ha lanciato segnali contrastanti quanto i New Orleans Pelicans, che ci hanno fatto vedere tutto ed il contrario di tutto più o meno da quando l’attuale core è insieme. I risultati sono stati altalenanti, la forma fisica di Zion Williamson non sempre perfetta, le prestazioni di Brandon Ingram e CJ McCollum ondivaghe, Herbert Jones è stato etichettato come inadatto ad una contender e subito dopo come fenomeno, Jonas Valanciunas alterna prestazioni convincenti a segnali poco incoraggianti per il prossimo futuro e via dicendo.
Dunque siamo riusciti a capire qualcosa di questi Pelicans? Sì, ma non troppo, dunque tenteremo di presentarvi dei possibili scenari e di fornirvi delle risposte che tendano il più possibile verso l’ottimismo.
A quale Zion Williamson dobbiamo credere?
La domanda è necessaria, e dalla sua risposta dipende quella del titolo. Zion Williamson è stato contemporaneamente super atletico e fuori forma, attivo difensivamente e molto pigro, backcourt e frontcourt, e soprattutto forte e dannoso.
Il primo quesito è di conseguenza l’inevitabile Zion si o Zion no? I numeri sono poco incoraggianti. I Pelicans rendono a tutti gli effetti meglio con il #1 in panchina, ed il suo on/off secondo Cleaning The Glass è di -6.2. I 5 titolari dei Pelicans (McCollum, Jones, Ingram, Williamson, Valanciunas) producono un Net Rating di solo +1.4, mentre sostituendo Trey Murphy III a Zion il valore schizza a +18.3. Chiaramente le lineups così prese dicono tutto e niente, poiché il contesto e gli avversari contro le quali vengono impiegate determinano gran parte del risultato. I Pelicans non possono far strada senza Zion Williamson, dunque la risposta DEVE essere Zion sì, benché i numeri dicano il contrario. Quello che è certo però è che Williamson per rendere al meglio ha bisogno di determinate lineups che allarghino gli spazi da attaccare il più possibile. Dunque come giudicare il suo accoppiamento con la seconda stella della squadra?
Zion Williamson e Brandon Ingram funzionano insieme?
Anche qui i dati non sono troppo incoraggianti, e purtroppo questa volta la smentita è decisamente meno netta e decisa della precedente. Il net rating medio dei Pelicans è di +5.4 (quarto migliore in NBA), ma quando le due star condividono il campo si abbassa a +2.1. Il motivo riguarda lo stile di gioco particolare di Brandon Ingram, che gradisce molto gli isolamenti e molto poco tirare su ricezione. Ad Ingram serve la palla per operare, ama l’1v1 ed è bravo sfruttare i vantaggi che si crea coinvolgendo anche i compagni con letture notevoli. Qui lo vediamo come traghettatore nei Pelicans della stagione 2021/22, nella quale furono costretti a fare a meno di Williamson.
Con Williamson il discorso cambia, in quanto quest’ultimo non essendo un tiratore non allarga gli spazi nei quali operare. Nelle seguenti clip lo vediamo ristagnare in degli 1v1 ad attacco fermo, e con un Williamson molto passivo senza palla ed inchiodato nel pitturato.
Con Williamson fuori dal campo, Ingram sembra trovare nuovamente il comfort che gli ha permesso di sfoderare delle eccellenti prestazioni nei Playoffs 2022, aumentando i suoi punti (da 20 x75 possessi a 27), i suoi assist (da 5 x75 possessi a 7.5) e senza che cali la sua efficienza. Cambia inoltre la distribuzione dei suoi tiri, poichè con Zion fuori tenta molte meno triple, fondamentale nel quale è affidabile ma non eccelle. La presenza di Williamson lo costringe a possessi lontano dalla palla nei quali è costretto a tirare di più in catch and shoot sugli scarichi del #1, come detto soluzione valida qualora Ingram sia in giornata, ma sulla quale è meglio non basare il proprio gioco visto il suo 36% da 3, appena sotto la media della lega, ed un non sfavillante 38% in situazioni di prendi e tira. Di contro Williamson può essere moderatamente efficace giocando con Ingram se il suo tasso di attività senza palla è elevato, tagliando con tempismo anche partendo dall’arco, essendo così capace di fornire a suo modo spacing.
In sintesi Brandon Ingram e Zion Williamson sono complementari? Probabilmente no, ma sono i due giocatori migliori che i Pelicans hanno a disposizione, ed il sacrificio di uno dei due potrebbe non essere la soluzione adeguata. Coach Willie Green sta infatti ben pensando di “staggerarli“, ovvero di separarne il minutaggio garantendo però di avere in campo sempre almeno uno dei due. Quando condividono il campo (solo 18 minuti su 48), le premure tattiche sono quelle precedentemente espresse, e sul quesito chi dei due porta palla, si alternano i possessi più o meno equamente.
Allora come impiegare al meglio Zion?
Parrebbe che il modo migliore sia stato proprio quello dell’ultimo mese, ovvero il tanto vociferato “Point Zion”. Secondo Second Spectrum, quando Zion Williamson varca il centrocampo portando palla, i New Orleans Pelicans producono 1.44 punti per possesso, un dato impressionante. Quando Zion agisce da ball-handler nel pick and roll genera 1.3 punti per possesso, e soprattutto quando finisce una partita con 6 o più assist i Pelicans hanno un record di 18 vittorie e sole 4 sconfitte. Ed infatti l’ultimo mese è stato decisamente il migliore dell’anno per la franchigia del New Orleans, anche grazie all’aumento di impiego di Williamson come portatore. Fino a fine gennaio la star dei Pels ha fatto registrare 5.7 assist x75 possessi, da inizio febbraio questo dato è salito a 8. Le sue capacità di passatore sono fortemente sottovalutate, e come si vede è capace di leggere numerose situazioni creando sia entry passes per il lungo (Valanciunas/Nance), sia per i taglianti, sia scarichi per i tiratori in angolo, dei quali i Pelicans dispongono in abbondante numero.
E parlando di tiratori un set molto usato è quello che si vede in video, dove è il tiratore stesso ad agire da bloccante (spesso Murphy, ma anche McCollum) che sfrutta la sua gravity senza palla per distogliere da Zion le attenzioni del suo uomo, permettendogli di penetrare con facilità. Qualora arrivasse un raddoppio ecco che si generano tiri da 3 smarcati a vagonate.
Chiaramente la parola d’ordine resta “Creare spazi”, e nessuno in questa lega è bravo ad attaccarli come Zion Williamson. Il giocatore dei Pels è il miglior finisher al ferro della lega insieme a Giannis Antetokounmpo, è primo negli ultimi 3 anni in Points in the paint di media a partita e converte le sue conclusioni nei pressi del ferro (la stragrande maggioranza dei suoi tiri) con oltre il 70%. Può crearsi lo spazio da attaccare sfruttando la sua velocità ed il suo palleggio, oppure accumulando energia cinetica grazie al cuscinetto che i difensori gli lasciano, non preoccupati del suo tiro, oppure ancora grazie a degli empty side pick and roll molto bassi poichè tutti gli altri compagni tranne lui e il suo bloccante sono situati sul lato debole.
Ed ecco che si sprigiona tutta l’inarrestabile potenza di Zion Williamson, un carro armato volante.
Herbert Jones
Si merita un paragrafo a parte. Herbert Jones è la vera chiave di questa squadra, passato da attaccante poco affidabile e semplice specialista difensivo a tiratore mortifero nel giro di un’estate. Jones ha imparato ad attaccare gli spazi, a chiudere divinamente al ferro, a mettere la palla a terra e finanche a condurre le transizioni, ma soprattutto è il bersaglio preferito dei kickout passes di Zion Williamson assieme a CJ McCollum. Come si vede dal grafico, l’angolo destro nel quale Jones ama stazionare è diventata una sua zona calda, anzi bollente. Da lì mette a segno il 57.7% (!!!) delle sue triple, un miglioramento insensato rispetto al modico 33% dello scorso anno. E come si vede nelle clip, Zion apprezza.
Ogni suo merito offensivo resta però subordinato alla sua immensa bravura come difensore perimetrale.
Jones può marcare indifferentemente guardie ed ali, ed occasionalmente anche i lunghi grazie alla sua apertura alare di circa 215 cm, le sue mani veloci e la sua intelligenza nei posizionamenti. Jones sa difendere in 1v1, ma anche inseguire i giocatori più pericolosi senza palla, eseguire closeouts a dir poco incredibili grazie ai suoi ottimi tempi di aiuto, comprendere gli angoli dei blocchi ed indirizzare le sue marcature nelle fauci dei suoi compagni, dimostrandosi anche un ottimo elemento quando si parla di difesa corale. Chiaramente essere così lunghi e al contempo così fluidi nei movimenti porta a qualche tradoff nella potenza fisica, ed infatti Jones è soggetto ad un po’ di sana vecchia bullyball contro ali forti più massicce o centri.
La difesa dei Pelicans
Ma oltre ad Herb, come va il resto della squadra nella propria metà campo? Dal 1 febbraio l’offensive rating medio dei Pels è di 120, il defensive rating di 109, rispettivamente quarto e secondo miglior dato della lega in quella span temporale. Williamson, così come in attacco, è anche qui l’ago della bilancia del team. Spesso lo si vede svogliato, si lascia facilmente battere, in posizione difensiva totalmente sbagliata e dritto sulle gambe, pigro negli aiuti e nei closeouts, così come spesso causa principale dei tiri aperti degli avversari perché si dimentica/rifiuta di cambiare.
Quando però Williamson si impegna, le sue doti atletiche gli consentono di reggere in diversi accoppiamenti, così come di essere impiegato da roamer sfruttando la sua verticalità in aiuto per stoppare ad altezze proibitive. Nei Pick&Roll i Pelicans concedono solo 0.88 punti per possesso quando Zion marca il bloccante (90° %ile tra tutti i giocatori NBA che hanno difeso almeno 100 di queste situazioni, via Second Spectrum). Qui lo vediamo reggere in 1v1 in cambi di emergenza contro Donovan Mitchell o Darius Garland, così come non essere minimamente intimorito dalla fisicità di Jimmy Butler.
Oltre a Jones e Williamson, Ingram e Murphy sono lunghi e possono marcare le ali migliori della lega in isolamento, accettando anche dei cambi con delle guardie. Il problema più grave invece riguarda la spot di centro, poichè Jonas Valanciunas, per quanto tosto fisicamente, non è capace di reggere in velocità contro le penetrazioni degli altri big men, e tantomeno di essere inserito in cambi, così da essere un bersaglio facile da cacciare per le difese che fanno molto mismatch hunting. Quanto i Pelicans riescano però a reggere senza neanche un giocatore oltre i 205 cm è un quesito per il quale sarebbe meglio non cercare risposta, e dunque la soluzione più logica parrebbe quella di proteggere Valanciunas lasciandolo nel pitturato (nonostante anche lì non essendo particolarmente atletico offra una resistenza non adeguata) nei minuti in cui si necessita di un centro di ruolo, tentare di farne a meno il più possibile quando anche la squadra avversaria gioca small-ball. La sensazione è che sia lui il vero pezzo sacrificabile nel breve termine per rendere i Pelicans al completo davvero competitivi, ma per quanto limitante la sua presenza non è detto che precluda automaticamente il successo nei Playoffs, specie considerando che sulla panchina dei Pels siede un c0ach giovane e preparato come Willie Green.
Conclusioni
La squadra c’è, non è perfetta nei suoi interpreti e nella sua costruzione, ma prima di tutto è necessario che gli elementi su cui si sa di voler puntare siano al 100% della forma. Se i Pelicans dovessero mantenere l’andazzo dell’ultimo mese e mezzo fino a fine anno, si farà a gara per evitarli in una serie a 7 partite, e per quanto non partano nella cerchia più ristretta delle pretendenti al titolo, possono essere un matchup fastidioso letteralmente per chiunque. A nostro modo di vedere sono la vera mina vagante anche in questa pazzissima Western Conference.
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Team Building tutorial

Negli ultimi anni abbiamo visto squadre senza superstar fare molto meglio di quanto ci si aspettasse e squadre piene di giocatori con lo status di stelle perdere molto più frequentemente di quali fossero le aspettative iniziali. Fioccano di conseguenza le motivazioni riguardanti la mancanza di leadership dei suddetti, l’incapacità gestionale degli allenatori, il famoso “c’è solo una palla” o ancora “troppi galli nel pollaio”.
In realtà, sebbene questi fattori possano essere importanti non sono comunque fondamentali per il successo o l’insuccesso di una squadra sul campo, che invece rispecchia sempre pregi e difetti di tipo tecnico-tattico e non comportamentale. Quante volte abbiamo realmente visto fallire progetti di superteams per questioni extra campo nella NBA odierna? Sicuramente alcune, e nelle quali la componente spogliatoio si è rivelata comunque nulla più che un fattore complementare ad altri più gravi, come gli infortuni, o lacune di tipo strutturale.
Ecco che in questi casi, nonostante frasi di uso comune quali “lasciateli almeno scendere in campo” o il classico “prove them wrong”, alcuni problemi sono evincibili molto prima che i giocatori scendano in campo, nel momento esatto di composizione di una rosa.
Ricordate la trade che ha portato Russell Westbrook ai Los Angeles Lakers? Ecco, quell’operazione è stata fallimentare già dal momento della firma, e non ha nulla a che vedere con un improvviso peggioramento di Westbrook nel corso dell’estate, trasformandosi da un giocatore “eccelso” ad un giocatore “pessimo” nel giro di qualche settimana, bensì ad un problema di Fit, una parola che utilizzeremo spesso in questo articolo e che simboleggia la capacità di più giocatori di rendere bene amplificando reciprocamente le proprie capacità in un determinato contesto. Questo, come il campo ha poi solo provato, non è stato il caso dell’operazione Westbrook-Lakers.
Ci offriamo quindi di proporre un mini tutorial: come fare a capire se dei giocatori “fittano” bene insieme?
Bisogna innanzitutto partire dal concetto di “Ruolo”
Nel basket moderno è inflazionata la credenza comune secondo cui viviamo in un roleless game, in cui i ruoli non esistono più. Nulla di più errato. I ruoli ci sono e sono ben definiti, solo non sono quelli tradizionali di Playmaker/Point Guard, Guardia Tiratrice, Ala piccola, Ala Grande/Ala Forte, Centro/Pivot.
Un tempo bastava posizionare 5 giocatori che rientrassero in queste categorie forzosamente imposte e la squadra era fatta: il play portava palla, le guardie tiravano, i lunghi stavano sotto canestro. Dunque anche giocatori con archetipi non idonei a rispettare gli incarichi tradizionalmente imposti dai ruoli erano costretti a giocare in una determinata maniera, soffocando le proprie capacità o venendo meno considerati delle loro effettive abilità. Altri erano talmente specializzati nel loro compito da beneficiare di una costruzione tipica di squadra per funzionare nel modo più classico e tradizionale possibile. Inutile dire che nell’era moderna queste tipologie di giocatori si sarebbero adattate in maniera molto differente, probabilmente performando rispetto alla loro epoca meglio le prime e peggio le seconde.
Dare una denominazione ai nuovi ruoli è difficile, ma per esigenze di catalogazione può essere comodo, e per questo gli amici di Basketball Index ci vengono in aiuto presentandoci degli archetipi offensivi e dei ruoli difensivi. Ognuno di questi ruoli ha un determinato impatto sui differenti contesti, ed a prescindere dalla capacità del giocatore, sarà minore in alcuni e maggiore in altri. Al contempo ognuno di questi giocatori ha anche una capacità di essere traslato in più contesti diversi che varia a seconda dell’archetipo, la cosiddetta scalability, ed alcune tipologie di giocatori (sempre indipendentemente dalle loro capacità) sono più o meno “scalabili”. Alcuni giocatori avranno un più o meno elevato floor raising, ovvero la capacità di elevare le potenzialità minime di una squadra (dall’inglese floor=pavimento) risultando molto impattanti specialmente in stagione regolare e portando squadre non eccezionali a contendere per i Playoffs; altri un più o meno elevato ceiling raising, ovvero partendo da già buone condizioni di partenza sono capaci di evelare le prestazioni della propria squadra a livelli ancora più alti (dall’inglese ceiling=tetto). Questa categoria di giocatori sarà più “scalabile” della precedente. Infine ci saranno i ceiling cappers (dall’inglese cap=coperchio), che come la parola suggerisce, bloccano le capacità massime di una squadra di esprimersi a livelli estremamente elevati solo con la loro presenza in campo. Questo non significa che siano giocatori scarsi o poco impattanti, quanto che avranno caratteristiche fortemente penalizzanti man mano che il livello si alza.
Di seguito elencheremo dei ruoli offensivi e difensivi con alcuni esempi concreti, parlando dei sistemi nei quali “fittano” al meglio.
P.S. I ruoli non sono rigide gabbie, ma flessibili e fluidi tentativi di catalogazione. Pertanto i giocatori che elencheremo come esemplari di un determinato archetipo non saranno esclusivi di quello, ma in base alle loro caratteristiche potrebbero contemporaneamente rientrare in più d’uno.
Attacco
PORTATORE PRIMARIO:
Floor Raising ⭐⭐⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐
Questa tipologia di giocatori tende frequentemente agli isolamenti, hanno un’elevata capacità di segnare e questa loro pericolosità porta a creare spazi anche per i compagni. Spesso sono shoot first players, che tendono ad iniziare le azioni o ad essere innescati dai compagni una volta superata la metà campo dopo una modesta attività senza palla. La loro posizione preferita per l’isolamento è sul perimetro, partendo da situazioni di 1v1 creando power plays (situazioni di vantaggio dovute a superiorità numerica) grazie alla loro capacità di battere l’uomo. Non fanno massiccio uso di Pick and roll e non fermano la palla in modo eccessivo. Vicino ad altre superstar risultano comunque pericolosi proprio perché possono ricevere anche ad azione in corso ed il loro movimento senza palla è sufficiente abbastanza da costringere le difese ad attenzioni extra che permettano ai compagni di gestire un attacco anche senza coinvolgerli direttamente in tutte le azioni. Tra i più celebri esempi di questa categoria figurano giocatori come Kyrie Irving, Donovan Mitchell, Jalen Brunson, Jamal Murray, LaMelo Ball, CJ McCollum, Fred Vanvleet, Darius Garland, Shai Gilgeous-Alexander, Dejounte Murray.

PORTATORE SECONDARIO:
Floor Raising ⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐⭐
Il discorso da farsi è più o meno il medesimo dei precedenti giocatori. Sono capaci di fare in misura minore tutto quello che fa l’archetipo precedente, assurgendo a ruolo di portatore per brevi fasi della partita e solo in alcune lineups. Quando condividono il campo coi precedenti aumentano il playimaking generale presente in squadra risultando pericolosi anche giocando senza palla, risultando pezzi molto pregiati in contenders che hanno già portatori di livello. In piccole squadre possono rendersi portatori primari con buoni risultati personali ma non ottimi per la squadra, escluse rare eccezioni (Jalen Brunson fino allo scorso anno rientrava in questa categoria, mentre ora ha dimostrato di poter essere qualcosa di più). Esempi sono D’Angelo Russell, Austin Reaves, Donte DiVincenzo, Malcolm Brogdon, Tyus Jones, Tyler Herro, Franz Wagner, Spencer Dinwiddie, Jordan Poole.

MEGACREATORS:
Floor Raising ⭐⭐⭐⭐⭐
Scalability ⭐⭐
Sono i giocatori con il più alto utilizzo on-ball della lega, tutto passa sempre dalle loro mani. Hanno praticamente sempre la palla in mano e sono il sole di sistemi detti appunto eliocentrici. La loro attività quando non hanno il pallone è essenzialmente nulla, poiché quando non hanno il pallone tra le mani è essenzialmente solo per riposare, quindi si risparmiano di frequente qualsiasi tipo di azione che possa aiutare il resto della squadra come portare blocchi o tagliare. Sono tra i giocatori meno scalabili in contenders poiché aumentano a dismisura il livello di squadre di basso livello, costringendone i membri a diventare tutti specialisti di una determinata azione che in base alle loro decisioni si svilupperà, ma fanno fatica a coesistere con altre superstar che necessitano della palla. Figurano in questa categoria moltissimi MVP poiché il loro impatto in stagione regolare è verosimilmente il più elevato di qualsiasi archetipo. I megacreators sono maestri nella gestione di qualsiasi tipo di Pick and roll e lo utilizzano per “exploitare” le difese costringendole a cambiare sempre sul difensore più debole, usano i compagni coinvolti nel gioco in Pick and roll per servirli quando si muovono, o usano i loro movimenti per distrarre la difesa procurandosi occasioni per segnare. Vanno in lunetta molto frequentemente, segnano moltissimo e creano moltissimo per i compagni, ma a causa dell’elevato carico di lavoro concedono molto spesso difensivamente. Gestiscono alla perfezione ogni tipo di raddoppio o mismatch. Fra questi giocatori figurano Luka Doncic, James Harden, Damian Lillard, Trae Young, Russell Westbrook, Tyrese Haliburton, Ja Morant e LeBron James. I giocatori capaci di tirare da fuori sono comunque più scalabili poiché pericolosi in situazioni di spot up oppure in uscita dai blocchi, mentre i soli slashers sono probabilmente l’archetipo che fa maggiormente da ceiling capper a qualsiasi tipo di squadra, poiché a meno che non abbiano la palla in mano non possono creare, ed anche li concedendo molto spazio e venendo battezzati fanno fatica a creare per se stessi, e di conseguenza per altri, poiché il primo requisito per essere un buon Playmaker è saper segnare per liberare le attenzioni delle difese dai compagni. Di conseguenza Damian Lillard o Trae Young offensivamente potranno comunque essere più utili per squadre di alto livello di Ja Morant o Russell Westbrook. Le righe di cui sopra fungono da spiegazione anche al perché LeBron James sia riuscito a portare alle Finals nel. 2007 e nel 2018 squadre verosimilmente non da Playoffs, salvo non riuscire a rendere le squadre colme di superstar in cui ha giocato dinastie invincibili per decenni. Non a caso gli Heat rendevano meglio con Wade in panchina rispetto a quando le due superstar condividevano il campo. In ogni caso alcune di queste superstar sono talmente forti che il floor da loro innalzato è più alto del ceiling del 95% delle squadre rimanenti, riuscendo comunque a guidare la loro squadra a dei titoli.

SLASH AND SPLASH:
Floor Raising ⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐
Questi giocatori devono gran parte del loro gioco alla loro capacità di segnare. Sono ottimi tiratori estremamente atletici, che spesso sfruttano la loro pericolosità sul perimetro per battere sul tempo i difensori che disperatamente tentano dei closeouts, chiudendo le azioni con And-1 o vigorose schiacciate. Sono giocatori che proprio a causa della loro score first mentality tendono a far registrare grandi numeri nelle piccole squadre senza necessariamente portarle ad alti livelli, principalmente per le loro lacune nel playimaking. Di contro in squadre con una creation diffusa possono essere dei pezzi offensivamente molto pregiati anche nei contesti più importanti. Sono probabilmente i giocatori più spettacolari da vedere in assoluto, che ognuno di noi desidererebbe incontrare in un playground, ma nei contesti di 5v5 soffrono spesso i raddoppi, quindi possono avere un impatto veramente elevato solo circondandoli di talento. I più celebri esempi che rispecchiano questo archetipo sono Zach Lavine, Anthony Edwards, Jalen Green, Jaylen Brown, Anfernee Simons.

3&D:
Floor Raising ⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐⭐
Come dice lo stesso nome, tirano e difendono. Cosa volere di più nella pallacanestro moderna? Sono i giocatori che più di tutti guadagnano valore in contesto Playoffs, grazie alla loro capacità di difendere più posizioni ed in attacco di garantire pericolosità senza richiedere troppo il pallone. Possono punire dal perimetro, possono mettere palla a terra e battere i closeouts, i più forti di loro possono anche giocare in 1v1 in maniera efficace, rimanendo sempre una seconda o terza opzione offensiva al massimo, poiché un carico eccessivo ne limiterebbe l’operato difensivo. In stagione regolare proprio il loro limitato utilizzo li rende giocatori ovviamente importanti ma che non cambiano le sorti di franchigie senza speranza di titolo. Quando invece sono circondati da attaccanti di livello risultano essere i pezzi più pregiati che le contenders cercano, data la loro totale assenza di punti deboli in qualsiasi aspetto del loro gioco se non sono costretti a tirare la carretta. Ogni contender ha un archetipo del genere in squadra ed il loro minutaggio dalla stagione regolare ai Playoffs tende spesso ad alzarsi. A volte i migliori 3&D risultano essere così forti e completi da diventare i primi violini delle loro squadre senza perdere di intensità difensiva, ma anche in questi casi eccellenti risentono dei problemi strutturali della categoria, ovvero sebbene alcuni posseggano un ottimo arsenale di 1v1 non battono sempre l’uomo con continuità e sono dei Playmakers più limitati dei grandi megacreators, necessitano di un altro portatore quantomeno del loro livello per poter portare le loro squadre ad un titolo NBA. I 3&D più celebri hanno bene o male tutti giocato in contenders, quindi possono essere ben noti al grande pubblico, ma li elenchiamo lo stesso per comodità: Paul George, Jayson Tatum, Mikal Bridges, Andrew Wiggins, Tobias Harris, Khris Middleton, Trey Murphy III, OG Anunoby, Klay Thompson.

THREE DIMENSIONAL SCORERS
Floor Raising ⭐⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐⭐
In assoluto i pezzi più pregiati in Free Agency e con il più elevato Trade Value in caso di scambi. Sono scorers capaci di far male ad un livello elitario in tutte e tre le dimensioni: al ferro, dalla media distanza e da tre punti. Si integrano perfettamente in qualsiasi tipo di sistema offensivo, hanno un elevato tasso di attività senza palla e sono inarrestabili in 1v1. Quando saltano gli schemi sono i giocatori più in grado di spaccare le partite grazie alla loro capacità di segnare senza ritmo o mettersi in ritmo da sé. Hanno una struttura fisica tendenzialmente molto vantaggiosa per il gioco 1v1: più alti, veloci o atletici del loro avversario, e solitamente con braccia molto più lunghe della media. Anche loro come i 3&D spesso hanno qualche limite nel playmaking, motivo per cui su serie a 7 partite possono essere più limitabili come primi violini per le loro squadre, e quindi si ha l’impressione, assolutamente veritiera, che abbiano bisogno di grande quantità di talento attorno a loro per vincere nonostante diano l’impressione di poter portare a casa partite e serie da soli. Questi giocatori possono gestire un attacco da soli, ma solitamente preferiscono essere innescati ad azione in corso, specialmente in situazione dinamica, ed il modo più utilizzato ed efficace per limitwrli è raddoppiarli e costringerli a giocare in drive and kick. Tra loro figurano tra le superstar più forti della storia, però se ci fate caso tendono più a sollevare Finals MVP a fine anno che premi di MVP della stagione regolare, poiché per costituzione impattano solitamente meno dei Megacreators in stagione ma più di loro se circondati da talento. Sono i migliori ceiling raisers della lega. Stiamo parlando di giocatori come Kawhi Leonard, Bradley Beal, Kevin Durant, Devin Booker, Brandon Ingram, Demar Derozan. Come vedete, tre di questi giocheranno insieme nella stessa squadra, ai Phoenix Suns, ed il dubbio principale su di loro sarà proprio se riusciranno ad offrire un contributo offensivo ai vertici della lega essendo tutti e tre scorers incredibili, ma in quanto a mere skills di creazione per gli altri, al livello dei playmakers secondari esposti sopra. Può un attacco fatto di tanto scoring, ma essenzialmente solo playimaking secondario finire ai vertici della lega? Lo scopriremo, ma qualora non dovessero si spiegherebbe la netta diminuzione di giocatori con questo tipo di archetipo rispetto a qualche anno fa dove abbondavano, ed oggi con l’aumento degli aggiustamenti tattici che ne mettano in evidenza le loro lacune, forse soffrono leggermente più di qualche anno fa. Prendendo difatti esempi storici del genere abbiamo Kobe Bryant, Tracy McGrady, Carmelo Anthony, Gilbert Arenas,… Epigoni dell’archetipo Jordaniano che per la generazione successiva alla sua ha simboleggiato il modello di eccellenza assoluta, ed ha retto quantomeno fino ad oggi, anche se sembra destinato lentamente a scemare, o quantomeno ad evolversi verso una più spiccata tendenza al playmaking: ed il nuovo modello per le attuali e future generazioni sembra evidente, ovvero colui che ha settato i nuovi standard di eccellenza del 2010, e che probabilmente li manterrà, esattamente come il #23 originale, per un decennio o poco più: Lebron James.

TIRATORI IN SPOT UP:
Floor Raising ⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐
Giocatori con un’elevatissima tendenza al tiro da 3 piedi per terra, che hanno fatto la fortuna dei sistemi eliocentrici, facendosi trovare pronti a capitalizzare gli scarichi dei migliori megacreators della storia. Hanno preso prepotentemente piede nei primi anni 2000 con i Suns dei 7 seconds or less di Mike D’Antoni, ed hanno mantenuto il loro ruolo nei sistemi epigoni di quello D’Antoni, come i Dallas Mavericks di Luka Doncic. Il loro grande limite è essere appunto giocatori fondamentalmente statici, che attendono in angolo di capitalizzare un vantaggio creato da altri, senza saperlo aumentare muovendosi tra i blocchi, tagliando o nei casi peggiori, senza saper battere i closeouts mettendo palla a terra. Motivo per cui questi giocatori in contesto di Playoffs rischiano di risultare fortemente limitanti, essendo sufficiente piazzare un difensore nelle loro vicinanze e controllando ogni tanto che siano ancora impalati al loro posto. Sono giocatori che figurano poco nelle grandi squadre, ma esempi celebri sono comunque rintracciabili, come George Niang, Grant Williams, Nicolas Batum, Robert Covington, Eric Gordon, Kevin Love, Davis Bertans, Reggie Bullock, Kentavious Caldwell-Pope, Trevor Ariza.

GRAVITY PLAYERS
Floor Raising ⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐⭐
Sono tiratori in catch and shoot, esattamente come i precedenti, ma che a differenza loro sono in costante movimento, smarcandosi per ricevere e tirare, e qualora non riuscissero a trovare buchi, passando la palla e ricominciando a correre senza mai fermarsi. Questo archetipo di giocatore è il più ricercato da qualsiasi tipo di attacco, anche se non sempre sono difensivamente eccellenti, ma questo paragrafo non è la sede opportuna per parlare della loro metà campo. Con le statistiche avanzate di tracking questi giocatori hanno visto certificato l’aumento del loro valore con gli anni, poiché spaziavano il campo all’inverosimile e permettevano le scorribande dei loro compagni di squadra più Ball dominant. Chi ha tracciato le bozze per questo tipo di giocatori è senza dubbio stato Reggie Miller, il cui impatto ai Playoffs aumentava a dismisura rispetto alla regular season, ed essendo allora punti, rimbalzi ed assist le statistiche pubblicamente riconosciute come importanti, un aumento di impatto del genere era inspiegabile dai più e Miller è rimasto a lungo un giocatore sottovalutato poiché avanti con i tempi. Chi ha portato alle stelle questo tipo di gioco è indubbiamente Stephen Curry, massimo esponente dei giocatori detti appunto “gravitationals“, poiché con il loro costante muoversi attirano a sé difensori, allontanandoli dal pitturato. Come detto Stephen Curry è il massimo esponente di questo gruppo di giocatori, tra i quali figurano anche Duncan Robinson, Tyrese Maxey, Desmond Bane, Luke Kennard, Kevin Huerter, Seth Curry, Michael Porter Jr.

STRETCH BIG:
Floor Raising ⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐
Archetipo offensivo nato in tempo relativamente recente e diffusosi in maniera preponderante dopo la seconda metà degli anni 2000 dopo che ci si è resi conto del quantitativo immenso di possibilità che un attacco avrebbe avuto con 5 giocatori pericolosi dall’arco, e da allora la ricerca di giocatori a-la-Nowitzki raggiunse esiti anche abbastanza eccessivi (si legga Bargnani prima scelta assoluta). Il lungo che tira da fuori permette di facilitare il requisito principale per ogni tipo di attacco virtuoso: attaccare il ferro, paradossalmente. Perché liberare l’area da sequoie gigantesche consente facili layups incontrastati semplicemente dopo aver battuto l’uomo. Lo Stretch big consente inoltre di ovviare ai limiti della small ball, che per costituzione concede troppi centimetri specie nella propria metà campo, aggiungendo anche chili e stazza a rimbalzo ed in post qualora ci fosse la necessità di gestire qualche azione nella maniera più tradizionale, poiché altrimenti il valore aggiunto dell’essere tiratore sì, ma pur sempre lungo, svanirebbe. Certo, non ci stiamo ancora occupando di difesa, e difatti non tutti gli Stretch big hanno necessariamente le caratteristiche ideali per reggere difensivamente contro un’altra squadra che magari adopera il medesimo sistema offensivo. Nell’ultimo quinquennio i lunghi che stazionavano fuori dal pitturato punendo le difese con dei pick and pop all’altezza della linea del tiro libero hanno compiuto un ulteriore paio di passi all’indietro allargandosi alla linea dei 3 punti, facendo registrare così statistiche da guardie o ali anche per giocatori di 210 cm o più. Questo archetipo offensivo è sempre in maggiore crescita data la sempre maggiore necessità di spaziature in attacchi che diventano ogni anno più efficienti ed indifendibili. Esempi noti di questo archetipo offensivo sono giocatori come Karl Anthony Towns, Brook Lopez, Nikola Vucevic, Al Horford, Lauri Markkanen, Kristaps Porzingis. Questa tipologia di giocatori si adatta a molti contesti offensivi, ma per costituzione è carente di un gioco palla per terra, essendo costretti ad essere innescati sia sugli scarichi che in qualsiasi altra zona del campo. Agiscono sostanzialmente come tiratori specialisti qualsiasi se non fosse che all’occorrenza possono anche sfruttare la possibilità di essere verosimilmente i più grossi in campo finendo con l’avvicinarsi al ferro. Sottintendiamo che le caratteristiche tipiche del ruolo non sono universalmente limitative ed i migliori tra questa tipologia di giocatori, chiaramente qui inseriti per mera ragione di catalogazione, all’occorrenza possono anche palleggiare, battere l’uomo e gestire dei contropiedi (Towns su tutti).

ROLL AND CUT BIG:
Floor Raising: ⭐⭐
Scalability: ⭐⭐⭐⭐
A livello di impatto e di filosofia offensiva tutto sommato sono simili ai lunghi Stretch sopra analizzati, ma differiscono radicalmente da questi per le zone del campo d’influenza. I lunghi cosiddetti roll and cut sono fisicamente ed atleticamente molto dotati, poiché giocano come si dice in gergo “con la testa sopra al ferro”. Infatti o grazie alla loro verticalità e rapidità di salto o grazie alla loro altezza ed alle loro lunghe braccia, questi giocatori sono i partner ideali per i grandi maestri di Pick and roll che amano manipolare le difese con il loro gioco sempre in sospeso tra il tirare ed il passare la palla. Inoltre la loro stazza ed il loro atletismo consentono un dominio a rimbalzo e sotto i tabelloni che nessun altro archetipo offensivo può vantare, proprio perché sanno sempre di poter arrivare su qualsiasi tipo di pallone si aggiri nella loro orbita. Come si sarà intuito, questi giocatori fondano gran parte della loro produzione offensiva sul gioco senza palla, e questo li rende molto poco ingombranti ed adatti a far bene nelle squadre di alto livello, che presentano già un portatore di palla di livello. Molti di loro però, anche i più forti, faticano quando sono costretti a dover gestire dei possessi da sé, poiché spesso la loro immensa coordinazione e gestione delle dimensioni, con una palla in mano scompare. E questa è un regola universalmente valida dall’alba dei tempi, da quando questo archetipo si è stabilizzato come il più dominante della storia della pallacanestro. Già ai tempi dei Philadelphia Warriors infatti, Wilt Chamberlain per portare la propria squadra al successo fu convertito da buco nero per i compagni a presenza nel pitturato di movimento, costretto ad essere innescato per giocare in modo più veloce ed efficiente. Con il passare degli anni, l’aumento del pick and roll e la spettacolarità ampiamente richiesta data da una giocata in alley oop reso sempre più popolare questo tipo di lunghi “rollanti”, dal primo Shaquille O’Neal a Dwight Howard ed Amar’e Stoudemire, fino ad arrivare ai giorni nostri dove ci sembra che questo archetipo sia invecchiato piuttosto bene, avendo forse aggiunto come unico requisito in più rispetto al passato la necessità di non dover condividere il campo con un proprio simile per problemi di spaziature, come hanno dimostrato negli scorsi Playoffs i Cleveland Cavaliers che faticavano a creare attacchi efficienti a metà campo a causa della presenza simultanea di Mobley ed Allen nonostante ad orchestrare ci fossero portatori del livello di Mitchell e Garland. Oltre ai due sovracitati altri esempi sono Anthony Davis, Robert Williams III, Clint Capela, John Collins, Nic Claxton, Deandre Ayton.

POST CREATORS:
Floor Raising ⭐⭐⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐⭐
Essenzialmente lunghi, che ricevendo spalle a canestro, creano un’enorme quantitativo di gioco per sé e per i compagni, muovendosi sapientemente in uno spazio brevissimo e servendo i tagliati grazie alla loro visione sopraelevata, spingendo gli avversari fino sotto canestro per chiudere con un layup, oppure riaprendo per i tiratori dopo aver fatto collassare la difesa in area, oppure ancora fungendo da soli per i loro pianeti, che orbitano attorno ad essi in attesa di ricevere un handoff con blocco annesso che spalanchi praterie per tiri o penetrazioni e consenta a questi lunghi al contempo di farsi spazio a rimbalzo con dei tagliafuori particolarmente ingombranti a causa della loro stazza. Una tipologia di giocatori questa, che nasce negli anni 60, con l’ultimo Wilt Chamberlain, poi esplosa con Kareem Abdul-Jabbar, Bill Walton e l’est Europa ha sfornato maestri del genere come Arvydas Sabonis. Questo basket si è dimostrato vincente anche negli anni 2000 sia in sistemi statici con il secondo Shaq, sia in sistemi dinamici con Chris Webber, ed ha raggiunto il suo apice in questi anni grazie a lunghi come Alperen Sengun, Bam Adebayo, Domantas Sabonis figlio del grande Arvydas e soprattutto Nikola Jokic. Sono giocatori dai quali passa gran parte del gioco offensivo della squadra, quindi se di un certo livello possono assurgere allo stesso ruolo dei Megacreators solo che come ce lo aspetteremo fare da lunghi. Il più grosso contro di questi giocatori è che spesso per essere partecipi dell’azione hanno forte necessità di essere coinvolti, altrimenti risultano meno efficaci in situazioni meno postcentriche rispetto ad altri tipi di giocatori, così come insieme ad altri giocatori fortemente Ball dominant. Inutile dire che queste limitazioni di massima non valgono per Nikola Jokic.
RIM PRESSURE PLAYERS:
Floor Raising ⭐⭐⭐⭐
Scalability ⭐⭐⭐
I maestri della cosiddetta bullyball, questi giocatori sono i migliori della lega a chiudere al ferro, e di conseguenza prediligono un gioco inside-outside, ovvero che parte da dentro, e qualora la prima alternativa fosse occupata, scaricano fuori. Ecco che s’intende da subito come il primo requisito per questi giocatori che dominano il pitturato sia l’avere il più libero possibile lo stesso, essendo dunque circondati di tiratori che permettano di dilazionare le attenzioni della difesa. A causa della forza fisica o delle dimensioni o dell’atletismo questi giocatori sono letteralmente incontenibili in 1v1, sono capaci di spazzare via qualsiasi tipo di minaccia e risultano devastanti in contropiede. Sono veri e propri arieti di sfondamento, e l’unico modo per limitarli è riempire l’area di uomini dalla stazza considerevole. Se in condizioni ideali, e soprattutto se non affrontano protettori del ferro di livello, questi giocatori possono dominare la partita con facilità anche ricorrendo ad un numero limitato di soluzioni, e poiché specie in stagione regolare non tutte le squadre sono attrezzate a controbattere delle armi del genere risultano essere degli ottimi Floor raisers, che però alzandosi il livello specie degli avversari, così come degli aggiustamenti tattici, possono risultare meno efficaci di altri, poiché sempre abituati a punire gli avversari con la potenza, che alla lunga può risultare non più sufficiente da sola. Infatti lasciando un cuscinetto che permetta di assorbire la penetrazione di questi giocatori quando hanno la palla, passando sotto i Pick and roll e sfidandoli al tiro, raddoppiandoli e costringendoli a testare le loro abilità da passatori, si può quantomeno contenere gli attacchi da loro giostrati più che rispetto a quelli guidati da altri giocatori. La soluzione come detto è un’adeguata costruzione del roster, circondandoli di tiratori e preferibilmente di un Portatore che permetta loro di ricevere il più possibile in situazione dinamica, poiché una volta che hanno preso velocità sono treni in corsa impossibili da fermare. Giocatori del genere sono Zion Williamson, Giannis Antetokounmpo, Joel Embiid, Aaron Gordon, Jimmy Butler, Pascal Siakam, Miles Bridges, Scottie Barnes, Julius Randle, Paolo Banchero, Jonathan Kuminga.
Difesa
In difesa non tutti i ruoli impattano allo stesso modo. Per costituzione alcuni sono più impattanti di altri, come sempre Bball Index ci dimostra in questo grafico relativo alla stagione 2022-23.

La scalability in difesa è direttamente proporzionale all’impatto, poiché da definizione la difesa è un’azione corale e non limitante dalla presenza di un solo pallone per cinque giocatori come succede per l’attacco. Dunque più un giocatore è capace di difendere più sarà adattabile a vari contesti, magari coprendo parizlamente grazie all’impatto nella propria metà campo anche le lacune offensive.
LOW ACTIVITY:
Impatto ⭐
Sono frequentemente i giocatori di maggior talento offensivo, per risparmiare le energie, oppure i difensori meno capaci, che vengono assegnati in difesa al giocatore offensivamente meno pericoloso della squadra avversaria, così da poter stazionare non troppo attivamente su di esso potendosi all’occorrenza permettere dei raddoppi sul maggior pericolo avversario senza troppa paura di lasciare la propria assegnazione. Sono i giocatori con il più alto tasso di palle rubate, proprio per la loro attività in gambling sulle linee di passaggio ed in raddoppio, a dimostrazione di come le palle rubate non siano un indicatore di buona difesa. Possono aggiungere valore alla difesa corale con le loro abilità comunicative e capacità di comprendere schemi e movimenti avversari. Esempi sono Stephen Curry, James Harden, Ja Morant, Trae Young, Duncan Robinson, D’Angelo Russell, Luka Doncic, Kyrie Irving.CHASER:
Impatto ⭐⭐
Identifichiamo come chaser un difensore con elevatissimo tasso di attività senza palla, tendenzialmente assegnato ai migliori tiratori di movimento della lega e deputato ad inseguirli in ogni zona del campo qualunque cosa accada, tentando di negare loro la ricezione. L’importanza di questo ruolo è leggermente diminuita negli ultimi mesi a causa della predilezione di alcuni allenatori di sistemi heavy switch, chiaramente qualora la costruzione della squadra lo permettesse, oppure preferendo una semizona contro i tiratori di movimento che si muovono tra i blocchi, portando spesso gli uomini del bloccante a cambiare su di essi, poiché inseguire per tutto il campo un giocatore venendo rallentato dagli ostacoli nel percorso non farebbe che aumentare in maniera eccessiva il vantaggio dell’attaccante sul difensore nello span di 24 secondi. Chiaramente questo avviene solo in misure estreme e contro giocatori di movimento estremamente pericolosi, mentre il ruolo del chaser risulta ancora efficace contro giocatori di livello offensivamente minore. Ma proprio per questo il suo impatto non può che considerarsi inferiore rispetto ad i protettori del ferro anche in un gioco sempre più perimetrocentrico. Ciononostante figurano in questa categoria difensori nominalmente di spessore come Mathysse Thybulle, Grayson Allen, Jrue Holiday, Davion Mitchell, Kentavious Caldwell-Pope.
HELPER:
Impatto ⭐⭐⭐⭐
Sono difensori molto comunicativi e di elevato impatto nel contesto difensivo ideale. La loro caratteristica è quella di comprendere gli schemi avversari alla perfezione, anticipare le mosse e proiettarsi sulle palle vaganti, ruotare per stoppare o subire sfondamento o ancora per intercettare dei passaggi o dei lob. La comunicazione, la comprensione degli spazi e delle posizioni da occupare e l’intelligenza è la principale caratteristica degli helpers, e per costituzione più aumenta la loro stazza e più sono impattanti. L’impatto di questi giocatori come detto cresce in difese di alto livello ed aumenta ulteriormente in contesto Playoffs, ma non riescono ad impattare troppo circondati da cattivi difensori, poiché le lacune che riescono così perfettamente a coprire diventerebbero semplicemente troppe. Riusciamo a trovare tra loro anche alcuni giocatori da calibro DPOY come Draymond Green, Marcus Smart o Giannis Antetokounmpo, ma anche Jimmy Butler, LeBron James, Dwyane Wade, Jalen Williams, Nicolas Batum, Robert Covington.
POINT OF ATTACK
Impatto ⭐⭐
I difensori POA come il nome stesso suggerisce si focalizzano su un punto preciso da difendere e non lo mollano come cagnacci rognosi. Sono dotati di grandissima rapidità laterale, e dunque per costituzione non sono altissimi, poiché con i loro corpi piccoli devono essere capaci di passare tra i blocchi, seguire ovunque il palleggiatore, dargli filo da torcere impedendogli anche solo di mettere palla a terra e tenendolo il più lontano possibile da canestro. Avere dei buoni giocatori POA facilità immensamente il compito dei buoni difensori senza palla, i quali in contesti elevati impattano più di questi ultimi, anche se ciò non viene evidenziato nei tabellini, ma senza di loro come detto sarebbero in grosse difficoltà. Il difensore POA ha il suo compito, e lo esegue, senza staccarsi ad aiutare o senza immense pretese di protezione del ferro. È un difensore sul portatore di palla, poco altro, ma questo lo fa come davvero nessuno. Soffrono molto marcatori più grossi di loro, ed infatti portatori di palla oversize come Luka Doncic e James Harden contro di loro non hanno troppi problemi. Tra i difensori POA principali figurano Alex Caruso, Lonzo Ball, Immanuel Quickley, Patrick Beverley, Mike Conley, Gary Payton II, Josh Okogie.
WING STOPPERS:
Impatto ⭐⭐⭐
Per loro vale lo stesso discorso dei difensori Point Of Attack, con la differenza che sono molto più grossi, quindi possono difendere con agilità sia le guardie che le ali che anche qualche lungo. Hanno chiaramente meno capacità di muoversi in spazi ristretti dei precedenti (salvo casi eccezionali), ma la loro rapidità laterale è comparabile ai primi, salvo poi aggiungere delle lunghe leve che possano permettere non solo di infastidire, ma anche di stoppare i tiri dei giocatori che marciano. In più una particolare categoria di wing stoppers, non particolarmente longilinei ma con il baricentro molto basso, è l’ideale per marcare in isolamento lontano da canestro anche i grandi centri da post, poiché difficilmente vengono spostati a causa della loro forza e del loro equilibrio. Sono difensori che garantiscono grande impatto ai Playoffs e spesso a loro capitano le assegnazioni sulla palla più complicate. Non sempre sono comunicativi e capaci di aiuti tempestivi, questo limita la loro dimensione difensiva all’1v1. Esempi sono Kawhi Leonard, Paul George, Jayson Tatum, Jarred Vanderbilt, Jaden McDaniels, Derrick White, Mikal Bridges, Andrew Wiggins, Aaron Gordon, Pascal Siakam, Scottie Barnes.
LUNGO VERSATILE:
Impatto ⭐⭐⭐⭐
In sistemi Heavy Switch oppure quando alle loro spalle hanno altri lunghi che possano fungere da ancora della difesa, i lunghi versatili, capaci di cambiare anche sui piccoli, sono tra i difensori più impattanti in NBA. Sia per la loro rapidità laterale, sia per le loro braccia lunghe, possono tenere l’1v1 contro qualsiasi giocatore essendo capaci di recuperarlo anche una volta battuti grazie alla loro capacità di arrivare dappertutto a braccia protese. I migliori di loro offrono anche un’ottima protezione del ferro, e vengono utilizzati come lunghi versatili, di solito in posizione classica di #4, per coprire le lacune di alcuni #5 molto bravi nel pitturato, ma che faticano qualora siano costretti a cambi lontano da canestro. Non è raro che molti lunghi versatili giochino da 4 nella prima parte della carriera, salvo poi diventare definitivamente dei 5 a causa della massa muscolare aggiunta ma magari della rapidità laterale persa, rendendoli a tutti gli effetti ancore (il prossimo ed ultimo ruolo che andremo ad esaminare). Tra di essi ci sono Evan Mobley (con non a caso alle sue spalle Jarrett Allen, e non mi sorprenderei di una sua evoluzione nel corso della sua carriera), il primo Anthony Davis (con McGee o Howard nella bolla), il primo Tim Duncan (con David Robinson), il primo Kevin Garnett (che riusciva ad agire contemporaneamente sia da lungo versatile che da helper date le necessità di squadra), Al Horford (con alle spalle Robert Williams III), il primo Jaren Jackson Jr. (quando ancora condivideva il campo con Steven Adams), Bam Adebayo (che gioca a tutti gli effetti come centro di un sistema small ball Heavy Switch), Jonathan Isaac, Nic Claxton ed immaginiamo nel futuro più prossimo Victor Wembanyama.
ANCHOR BIG:
Impatto ⭐⭐⭐⭐⭐
Sono i perni delle difese in cui militano. Sono i migliori protettori del ferro al mondo, hanno verticalità e stazza e rappresentano l’archetipo difensivo più tradizionale per i lunghi, poiché esistono dall’alba dei tempi. Le ancore difensive possono essere ulteriormente suddivise in tre categorie:
– i drop bigs, ovvero i lunghi spesso coinvolti nelle difese sui Pick and roll che passano sotto i blocchi ed evitano i cambi. La loro tendenza è infatti ad indietreggiare togliendo ogni tipo di velleità di attacco al ferro, evitando di chiudere alti con il rischio di essere battuti dal palleggio e concedendo piuttosto un tiro dalla media distanza. Esempi sono Brook Lopez, Jakob Poeltl e Rudy Gobert. Solitamente sono i difensori più impattanti in stagione regolare, ma per costituzione una forsennata e dogmatica difesa in drop può penalizzare non poco ai Playoffs.
– i roamers, che spesso sono dotati di una mobilità laterale abbastanza limitata, e per questo restano fermi nel pitturato e vengono protetti dagli altri quattro compagni di squadra, i quali se sono difensori di buon livello possono elevare esponenzialmente l’impatto dei roamers al livello dei migliori difensori della lega. Sono restii ad accettare i cambi e la loro priorità e non staccarsi dal pitturato per non concedere tiri facili. Tra questi figurano Robert Williams III, Jarrett Allen, Jalen Duren, Dwight Howard, Ben Wallace, David Robinson, Shaquille O’Neal.
– le ancore mobili, già citati in precedenza nella precedente categoria di lunghi perché simili in tutto ad essi, salvo essere ancora più grossi ed utilizzati spesso come unici protettori del ferro. Sono capaci di scalare alla posizione #4 se condividono il campo con altre ancore più limitate come mobilità. Sono in assoluto il miglior archetipo difensivo possibile, poiché sanno svolgere entrambi i compiti precedentemente scritti riguardo le ancore, ma sono anche capaci di cambiare su giocatori più piccoli. Spesso questa loro capacità di cambiare però viene sfruttata a loro sfavore, poiché accettando ogni tipo di cambio, ma al contempo non condividendo il campo con altri giocatori capaci di offrire protezione del ferro, sono attirati lontano da canestro, lasciando il pitturato sguarnito. Tra di essi figurano i migliori difensori della storia del basket, da Bill Russell ad Hakeem Olajuwon, passando per l’ultimo Tim Duncan e l’ultimo Kevin Garnett, fino ad arrivare agli attuali Anthony Davis, Jaren Jackson Jr ed in alcuni casi Joel Embiid. Si prospetta un ruolo simile ad OKC anche per Chet Holmgren. -
Le 25 migliori squadre di sempre

Nei suoi 77 anni di vita la NBA ha visto succedersi tante grandissime squadre che hanno lottato con tutte le loro forze per sollevare l’ambito Larry O’Brian trophy. Solo in poche ci sono riuscite, e spesso moltissime squadre meritevoli sono rimaste a secco. Ma quale tra queste è veramente la squadra più forte che abbia mai calpestato un parquet NBA? Abbiamo provato a stilare una classifica delle 25 migliori squadre della storia della National Basketball Association.
Premessa: come paragonare squadre e giocatori che appartengono a periodi storici diversi? La nostra scelta è sempre quella di mettere gli oggetti dell’analisi in relazione al loro contesto storico, e di conseguenza capire quale squadra ha dominato di più la propria epoca di riferimento.
Criteri: Ci siamo posti dei criteri senza schemi mentali precedenti parziali o faziosi, e solo in seguito alla scelta dei criteri le squadre sono state analizzate e successivamente classificate, di conseguenza le posizioni non erano già decise a priori ma si sono definite in itinere approfondendo e rispettando le premesse. Abbiamo valutato:
- Sistema di gioco
- Competizione affrontata
- Successo ai Playoffs
- Superstar e supporting cast
- Coaching staff
- Gravità dei punti deboli
- Cosa l’ha resa speciale?
- Simple Rating System (SRS)
- Net Rating
- Relative Offensive / Defensive Rating (Rortg/Rdrtg)
- Modernità in relazione ad i tempi
N.B. Si è deciso di selezionare una sola versione per le squadre che consideriamo simili, quella reputata la migliore. La scelta è motivata nella relativa discussione.
Menzioni onorevoli:
Brooklyn Nets 2020-21

Purtroppo questa non può essere nulla più che una menzione onorevole. Dopo la trade che ha portato James Harden ai Brooklyn Nets, la squadra ha riportato un record di 8 vittorie in 10 gare di stagione regolare, quando i tre tenori Kevin Durant, Kyrie Irving e lo stesso Barba erano in campo insieme, con un net rating di +7.2 (122.9 di offensive rating, potenzialmente il migliore di sempre), uno scarto medio di 7.2 punti a partita ed un Srs di 7.1, che se proiettato per 82 partite equivale ad un ritmo da 61 vittorie. Non possiamo dire molto altro, se non che Kyrie Irving e Kevin Durant sono entrambi giocatori capaci di muoversi senza palla, ed Harden da direttore d’orchestra fino al suo infortunio in gara 1 contro i Bucks ha fatto faville. Nella prima serie contro i Celtics, vinta per 4-1, i Nets hanno segnato mediamente 123.4 punti (uno spaventoso offensive rating di 130.4), tirando con il 63.8% di percentuale reale di tiro. Il solo Harden quando in campo ha prodotto un offensive rating di 153 punti per 100 possessi, numeri da rileggere più volte per reputare veritieri. Dopo aver vinto con 11.8 punti di scarto medio per 100 possessi contro i Celtics, i Nets anche senza James Harden sembravano sul punto di buttare fuori dai playoffs comodamente anche i Milwaukee Bucks. L’infortunio di Kyrie Irving ha però definitivamente chiuso la storia di uno dei più grandi what if di sempre, consegnando però ai posteri una run firmata Kevin Durant davvero da ricordare.
San Antonio Spurs 2015-16

I San Antonio Spurs del 2016 sono stati autori di una delle più incredibili stagioni regolari di sempre, oscurata dalla contemporanea dei Golden State Warriors, conclusasi con 73 vittorie e 9 sconfitte. Andando nel dettaglio però la stagione di San Antonio, non fu peggiore. Un calendario più facile (via Basketball Reference) ha portato i Warriors a raccogliere forse più del seminato. Infatti gli Spurs terminarono la stagione al primo posto per net rating (+11.3), Pythagorean Wins (67), rdrtg (-7.1) ed SRS (10.28, un ritmo da 67 vittorie appunto). I Playoffs non iniziarono diversamente. San Antonio dominò Dallas e distrusse gli OKC Thunder di Westbrook e Durant in gara 1, salvo poi squagliarsi come neve al sole nel resto della serie. Il nuovo acquisto Lamarcus Aldridge, sebbene autore di una prova autorevole offensivamente, in difesa fu semi-disastroso, Tim Duncan fu eroico in gara 6, ma l’età si faceva sentire a livello di mobilità laterale, ed i super atletici Thunder ne approfittarono, limitando anche offensivamente Kawhi Leonard. La sensazione è che gli Spurs siano arrivati totalmente a secco, ma il fatto che l’anno dopo, con una stagione regolare decisamente inferiore, ed alcuni pezzi storici persi per strada, fossero vicini a strappare gara 1 gli invincibili Warriors prima dell’infortunio di Kawhi, fa pensare che quella squadra avesse ancora del potenziale da esprimere.
25. Milwaukee Bucks 2020-21

I Milwaukee Bucks erano stati autori di una regular season monstre nel 2020, con una difesa storicamente forte (-7.7 Rdrtg), collimata da un Giannis Antetokounmpo premiato come Difensore dell’anno, ed un ritmo per raggiungere le 66 vittorie (9.41 SRS) se il Covid non avesse interrotto la stagione. Nei playoffs, però, la difesa non ha retto come in stagione regolare ed in attacco sono emersi problemi strutturali che causava il cosiddetto “point Giannis”, croce e delizia dei Bucks di quell’anno e di coach Budenholzer. In più la mancata pericolosità da 3 di Eric Bledsoe impediva di capitalizzare i raddoppi su Giannis. Questo ha portato la muraglia dei Miami Heat ad imporsi in 5 gare. I Bucks sono tornati l’anno successivo, decisamente con meno certezze a livello di stagione regolare, anch’essa anomala a dir poco. Ma in chiave Playoffs l’acquisto di Jrue Holiday avrebbe cambiato le carte in tavola, facilitando un decisivo cambio di utilizzo di Giannis Antetokounmpo dal ruolo di portatore ad un gioco più senza palla. Dopo questa svolta, avvenuta nel bel mezzo della serie contro i Nets, la strada per il titolo NBA era tracciata. I Bucks vinsero in 6 contro Atlanta e contro Phoenix ribaltando la serie sotto 2-0. Non ci sentiamo di salire oltre la 25^ posizione, forse se questo cambio tattico fosse avvenuto un po’ prima nella stagione avrebbe scalato la nostra classifica.
24. New York Knicks 1969-70

Gli storici Knicks del 1970, che vinsero contro i Lakers di Chamberlain, Baylor e West con il leggendario Willis Reed che gioca sul dolore… Chi non conosce questa storia? Una storia da underdog, decisamente… beh non proprio. I Knicks nel 1970 in realtà si candidarono da subito come una delle principali contenders per il titolo NBA. Dopo aver chiuso una stagione con 60 vittorie (e con un ritmo da 63, 8.42 di SRS), la miglior difesa della NBA (-6.6 rdrtg), ed un margine di scarto medio sugli avversari di 9 punti, i ragazzi allenati da coach Red Holzmann vinsero 4-3 contro i Washington Bullets di Earl Monroe (loro futuro acquisto), Gus Johnson e Wes Unseld. Dopodichè fecero fuori in 5 gare i Bucks di un giovane Lew Alcindor (non ancora Kareem Abdul-Jabbar), e vinsero la storica serie in 7 gare contro dei Lakers in realtà non ancora perfetti, nonostante il roster, (SPOILER) ma di questo avremo modo di parlare più avanti nell’articolo. I Knicks vinsero, sì, ma con ampio margine su tutti gli avversari incontrati, totalizzando un net rating di +7.9 nei Playoffs. Primi in stagione regolare e nettamente più performanti di tutti ai Playoffs, siamo ancora convinti di parlare di underdogs? La versione dei Knicks 1970 è stata preferita a quella del 1973, poiché nonostante la (questa volta si) impresa riuscita in 7 gare contro i Celtics da 68 vittorie e l’acquisto di Monroe, il capitano Willis Reed non era più un giocatore di livello MVP come nel 1970, ma “solo” un buon tiratore e difensore di rotazione.
23. San Antonio Spurs 1998-99

Il primo titolo dopo la fine dell’era Jordan se lo aggiudicarono i San Antonio Spurs, che nel 1999 grazie alle torri gemelle Tim Duncan e David Robinson, chiusero il pitturato agli attacchi avversari come pochissimi erano riusciti a fare prima di loro. Gli Spurs, con la miglior difesa della lega per distacco (-7.7 rdrtg), vinsero 37 gare su 50 (lockout), che parametrate per 82 gare equivalgono ad un ritmo di 61 vittorie (7.12 SRS), con un net rating di +9.0. Gli Spurs passeggiarono per tutti i Playoffs, perdendo solo 2 gare su 17 e vincendo il titolo NBA con uno scarto medio sui loro avversari dei Playoffs di 8.5 punti per 100 possessi. Numeri notevolissimi, sicuramente per merito di San Antonio, ma anche perché la competizione affrontata non è stata poi questo gran che, a cominciare dai Knicks in Finale NBA, unica squadra insieme ai Miami Heat nel 2023 a raggiungere la serie finale da ottava testa di serie. Questo ci impedisce di far salire dei pur dominanti Spurs oltre questo posto in classifica (SPOILER, i Nuggets non sono presenti in questa classifica per il medesimo motivo).
22. Sacramento Kings 2001-02

I Sacramento Kings del 2002 sono una delle squadre più profonde che la storia recente ricordi. Una squadra, quella guidata da coach Rick Adelman, che insieme ai Dallas Mavericks di Don Nelson, tentava di portare alla ribalta un gioco totalmente anti-Shaq, di grande modernità, ritmo e giro palla, in forte opposizione al triangolo di Phil Jackson che in quegli anni ha riscosso innumerevoli successi, magari a discapito dell’estetica. Dopo una stagione da 61 vittorie, un SRS di 7.62 (ritmo per 62 vittorie) ed un net rating di +7.9 (primi in NBA), i Kings chiusero la regular season al primo posto ed in finale di conference si scontrarono contro la seconda classificata, proprio i Lakers. Pieni zeppi di tiratori e difensori POA, con Chris Webber a guidarli come point-center grazie al suo pacchetto offensivo praticamente totale, i Kings sono stati l’avversario più duro affrontato dai Lakers del three peat, e proprio grazie alle loro spaziature, hanno messo a dura prova la difesa Losangelina, che non poteva più accomodarsi su uno Shaq protetto in posizione di roaming, ma costretto a dover seguire sia Webber che Divac fuori dal pitturato poiché lasciare loro un tiro comodo non sarebbe stato il massimo per gare a così basso punteggio. Ironico che a costare loro la serie sia stato proprio un tiro dall’angolo totalmente smarcato del loro miglior tiratore, Peja Stojakovic, che chiuse gara 7 con un airball. I Kings bussarono prepotentemente alle porte del titolo anche l’anno successivo, ma privi di Webber, out per infortunio, capitolarono contro i Dallas Mavericks in 7 gare in una delle più belle serie del tempo (caldo invito a recuperarla a chi non l’avesse vista).
21. Toronto Raptors 2018-19

I Raptors hanno vinto il loro primo storico titolo NBA nel 2019, ma l’idea di impresa che si dà a questo successo è forse eccessiva, dato che Toronto si è dimostrata essere una squadra veramente molto forte. Paradossalmente si può dire che una squadra così forte non abbia brillato in modo eccessivo nonostante il risultato massimo ottenuto. 58 vittorie e secondo posto nella eastern conference, 5.49 di SRS (ritmo da 57 vittorie, inferiore a quello dell’anno successivo senza Kawhi), attacco e difesa entrambi tra i primi 5 della lega, ma nessuno dei due davvero clamoroso (come invece sarà la difesa dell’anno successivo, nonostante la perdita di Kawhi Leonard). Ai Playoffs un rispettabilissimo net rating di +5.6 ed un Drtg calato dal 107.1 della stagione regolare a 104.4 rendono Toronto decisamente più impattante a livello statistico, ma lo sblocco definitivo è arrivato nel quarto quarto di gara 3 contro i Milwaukee Bucks, quando erano sul punto di finire sotto per 3-0 ed invece sono riusciti a ribaltare partita e serie, grazie ad un brillante aggiustamento difensivo di Nick Nurse, per poi concludere una marcia trionfale contro i decimati Golden State Warriors. Certo, che Toronto abbia fatto così bene l’anno successivo, migliorandosi in tutto e per tutto in stagione regolare, e perdendo ai Playoffs solo in gara 7 del secondo turno, dopo aver perso uno dei 3 migliori giocatori della lega, fa pensare che sarebbero potuti essere non solo vittoriosi, ma addirittura dominanti. Questo però, non è avvenuto, perciò non possiamo farli salire oltre questa posizione.
20. Los Angeles Lakers 2008-09

Pochi mesi dopo l’arrivo di Pau Gasol, Los Angeles, sponda Lakers, è tornata tra le big della lega. Già nel 2005 si era probatori a sostituire Shaquille O’Neal con Lamar Odom, ma il fallimento fu dovuto ad una non grande capacità di coach Rudy Tomjanovic di far sposare le qualità con la palla di Odom e quelle senza palla di Kobe Bryant. Qualità perfettamente complementari, come dimostrò Phil Jackson nel suo ritorno sulla panchina dei Lakers, e che con Pau Gasol erano ulteriormente implementate, grazie alla grande intesa di questo con Bryant ed alle sue capacità di passatore dal post alto. 65 vittorie in stagione regolare, 7.11 di SRS, +8.1 di net rating (terzi dopo Celtics e Cavs) e primo posto ad Ovest. Dopodiché una grande run da Playoffs, in cui i Lakers hanno battuto gli avversari senza diminuire la marcia inserita in stagione regolare. Battuti gli Utah Jazz in 5 gare, i Rockets in 7 (dominando gara 7 con facilità), i Nuggets in 6 ed in finale gli Orlando Magic in 5. Una competizione non clamorosa, ma battuta senza troppissime difficoltà, con uno scarto medio di 7.9 punti per 100 possessi. I Lakers hanno fatto quello che c’era da aspettarsi, nulla di più nulla di meno. Qui abbiamo probabilmente visto la miglior versione della carriera di Kobe Bryant.
19. Detroit Pistons 2003-04

Nonostante le 5 finali di conference consecutive, sui Detroit Pistons del 2004 andrebbe fatto il discorso opposto a quello precedente sui Lakers. Non dovevano vincere, invece non hanno solo vinto, hanno massacrato in finale NBA i Lakers di Shaq, Kobe, Malone e Payton e poi hanno ripetuto con continuità il loro successo nel corso degli anni. L’acquisizione di Rasheed Wallace a metà stagione è stata la ciliegina sulla torta a completare il sistema difensivo di coach Larry Brown. Nonostante un record non eccezionale (54-28), i Pistons fecero registrare una difesa statisticamente mostruosa (-7.5 di relative Drtg, secondi solo a degli insensati Spurs a -8.8),e questo trend migliorò ulteriormente in postseason, concedendo agli avversari da 95.4 a soli 92 punti per 100 possessi. Chauncey Billups ai Pistons si dimostrò un ottimo giocatore e leader, guidando come play un attacco al quale si aggiungeva la potenza di fuoco di Rip Hamilton, miglior giocatore della lega nel muoversi senza il pallone. La difesa? Tayshaun Prince, Ala 2way dalle braccia lunghissime, dalla mobilità laterale notevole e dai grandi istinti; Ben Wallace, ancora del sistema di Brown ed autore di una delle più autorevoli run difensive di tutti i tempi, quella del 2004 appunto, e per finire Sheed, che offriva supporto a Big Ben nel proteggere il pitturato, con i suoi istinti sovrannaturali, le sue mani rapide ed i suoi tempi di aiuto. Si, i Pistons si sono dimostrati veramente forti, più di quanto non sembrassero. Lo testimoniano le 64 vittorie in stagione regolare nel 2006 arrivate sotto coach Flip Saunders, che però aveva montato un grande sistema offensivo in una squadra costruita per difendere, ed ai Playoffs più di qualche amnesia fu chiara ed evidente contro Miami. Se solo il sistema difensivo di Larry Brown fosse stato combinato con l’attacco di Saunders, e specie Rip Hamilton, perno dei secondi Pistons, avesse cominciato un po’ prima ad allargare il campo facendo un passo indietro dai long 2 ai tiri da 3 punti, questa squadra sarebbe davvero stata una delle più forti di sempre, ma la cocciutaggine vecchio stampo di Larry Brown ci ha parzialmente proibito di vedere dei Pistons anche belli oltre che solidi.Nonostante le 5 finali di conference consecutive, sui Detroit Pistons del 2004 andrebbe fatto il discorso opposto a quello precedente sui Lakers. Non dovevano vincere, invece non hanno solo vinto, hanno massacrato in finale NBA i Lakers di Shaq, Kobe, Malone e Payton e poi hanno ripetuto con continuità il loro successo nel corso degli anni. L’acquisizione di Rasheed Wallace a metà stagione è stata la ciliegina sulla torta a completare il sistema difensivo di coach Larry Brown. Nonostante un record non eccezionale (54-28), i Pistons fecero registrare una difesa statisticamente mostruosa (-7.5 di relative Drtg, secondi solo a degli insensati Spurs a -8.8),e questo trend migliorò ulteriormente in postseason, concedendo agli avversari da 95.4 a soli 92 punti per 100 possessi. Chauncey Billups ai Pistons si dimostrò un ottimo giocatore e leader, guidando come play un attacco al quale si aggiungeva la potenza di fuoco di Rip Hamilton, miglior giocatore della lega nel muoversi senza il pallone. La difesa? Tayshaun Prince, Ala 2way dalle braccia lunghissime, dalla mobilità laterale notevole e dai grandi istinti; Ben Wallace, ancora del sistema di Brown ed autore di una delle più autorevoli run difensive di tutti i tempi, quella del 2004 appunto, e per finire Sheed, che offriva supporto a Big Ben nel proteggere il pitturato, con i suoi istinti sovrannaturali, le sue mani rapide ed i suoi tempi di aiuto. Si, i Pistons si sono dimostrati veramente forti, più di quanto non sembrassero. Lo testimoniano le 64 vittorie in stagione regolare nel 2006 arrivate sotto coach Flip Saunders, che però aveva montato un grande sistema offensivo in una squadra costruita per difendere, ed ai Playoffs più di qualche amnesia fu chiara ed evidente contro Miami. Se solo il sistema difensivo di Larry Brown fosse stato combinato con l’attacco di Saunders, e specie Rip Hamilton, perno dei secondi Pistons, avesse cominciato un po’ prima ad allargare il campo facendo un passo indietro dai long 2 ai tiri da 3 punti, questa squadra sarebbe davvero stata una delle più forti di sempre, ma la cocciutaggine vecchio stampo di Larry Brown ci ha parzialmente proibito di vedere dei Pistons anche belli oltre che solidi. Ma d’altronde si sa, conta vincere, e Brown sapeva vincere così.
18. Los Angeles Lakers 2019-20

Chi non ricorda la stagione infinita, bloccata a causa del COVID e poi ripresa nella bolla di Orlando di Disneyland? E come tutti i finali dei migliori romanzi a sollevare il titolo furono i Los Angeles Lakers, l’anno della morte di Kobe Bryant. Quei Lakers, guidati da LeBron James che per tutta la stagione regolare aveva diffuso l’#revengeseason su ogni sua piattaforma social, erano una squadra prettamente difensiva, che guidata da coach Vogel giocava con il doppio lungo, permettendo ad Anthony Davis di cambiare anche lontano da canestro ed essere semplicemente devastante sia sull’uomo che in aiuto. I Lakers fecero registrare il miglior record ad Ovest, 52-19, che parametrato per 82 gare risulta essere un ritmo da 59 vittorie (6.28 di SRS). Con un Net Rating di +5.7 e la terza difesa della lega dopo Raptors e Bucks (-4.3 rdrtg), i Lakers aumentarono il loro livello ai Playoffs, grazie ad un Lebron fisicamente riposato dopo la pausa, che riuscì a spazzare via i Nuggets ed i Blazers in 5 gare ed a un Davis che con la sua versatilità difensiva distrusse tutti i sistemi offensivi più gerarchizzati, come quello di Houston e Miami. Con un offensive rating fortemente migliorato (115.9) appunto dalla condizione fisica di Lebron, e da quella psicologica di tiratori che potevano segnare in una palestra senza pubblico, i Lakers ebbero il miglior attacco dei Playoffs ed un Net Rating di +7.0. Una squadra decisamente molto forte, ma che non scala ulteriori posizioni per la scarsa competizione affrontata, dato che i Bucks e specialmente i Clippers, unici capaci di ostacolare LA, furono eliminati precedentemente, coi secondi responsabili di un suicidio tecnico contro Denver guidati da un pessimo Leonard ed un disastroso George che da allora si sobbarcò il soprannome di Pandemic P.
17. Detroit Pistons 1988-89

I Pistons del 1989 si iscrissero di diritto tra le grandi dinastie degli anni ’80. Dopo la cessione di Adrian Dantley, il miglior scorer della squadra, ma che bloccava ogni tipo di meccanismo offensivo, in favore di Mark Aguirre, Detroit prese il volo. Con un record di 63-19, (addirittura 32-6 dopo la trade deadline) i ragazzi di Chuck Daly chiusero al primo posto ad Est e sembravano una macchina inarrestabile nonostante il sesto calendario più difficile della NBA (Via Basketball Reference). Ai Playoffs se possibile migliorarono ancora il loro operato, vincendo 15 gare sulle 17 disputate ed eliminando ad uno ad uno tutti i rivali storici: i Celtics di Bird per 3-0, i Bucks di Moncrief per 4-0, i Bulls di Jordan per 4-2, ed i campioni in carica, i Lakers dello Showtime per 4-0. Isiah Thomas fu premiato Mvp delle Finals ed i Pistons chiusero i Playoffs con un Net Rating di +8.7. Forse questa squadra sarebbe potuta salire ancora un pochino in questa speciale classifica, specie dopo la trade Dantley-Aguirre, ma l’aver affrontato si grandi dinastie, ma tutte al crepuscolo della loro storia, invecchiato e non può del livello di 4-5 anni prima, così come l’essere privi di una superstar del calibro dei più grandi (poiché lo stesso Thomas nonostante i Playoffs non era il giocatore di 4-5 anni prima), la lascia un pelino indietro. In
16. Minneapolis Lakers 1949-50

George Mikan è stata la prima superstar del basket professionistico, arrivato in NBA dopo la fusione tra BAA e NBL. Centro da post basso dei Minneapolis Lakers, era il più grosso e fore giocatore che ai tempi il basket avesse mai visto. Una volta presa posizione il suo gancio destro dal post era l’arma più letale e inarrestabile della lega. Guidati da Mikan, Jim Pollard, il giocatore più completo dell’epoca, Vern Mikkelsen, e l’aggressivo Slater Martin a dettare i tempi della difesa, i Minneapolis Lakers vinsero cinque titoli nei loro primi sei anni di esistenza. Abbiamo scelto tra queste cinque versioni, la seconda in ordine cronologico: i campioni del 1949-50. Con un SRS di 8.25 (ritmo da 63 vittorie), un record di 51-17 (30-1 in casa!) ed un margine medio di vittoria di 8.34 punti, i ragazzi allenati da coach John Kudla chiusero col miglior record della stagione regolare a pari merito coi Cincinnati Royals, ai quali strapparono la vetta della Division battendoli al tiebreak. Dopo essere arrivati alle Finals imbattuti, i Lakers ebbero vita dura contro i Siracuse Nationals, che riuscirono a battere in gara 1 con un buzzer beater da 12 metri. I Lakers non abbandonarono più il comando della serie, ed i Nationals capitolarono in 6 gare. Purtroppo, i dati ed i filmati relativi a quegli anni sono molto scarsi e rendono un po’ anomala questa posizione di classifica, ma sembra corretto inserire i Minneapolis Lakers per rendere onore fino in fondo ad ogni epoca della storia della National Basketball Association, e secondo i criteri sovraespressi, poche squadre hanno dominato il loro periodo storico come loro.
15. Boston Celtics 1961-62

I Celtics di Russell hanno dominato la NBA dal primo all’ultimo anno di carriera del loro leader, vincendo undici titoli in tredici anni dei quali otto consecutivamente. Tra il 1961 ed il 1965 hanno fatto registrare un dato difensivo outlier tra gli outliers, -9.1 di relative drtg nella span di 3 stagioni (mai nessun altro ha toccato il -9 neanche in una singola annata), con un picco di -10.4 nel 1964. Lo stesso Russell, senza avere la più pallida idea che in futuro sarebbero esistiti questi numeri ha dichiarato che la stagione 1964 per lui era la più grande stagione difensiva di tutti i tempi, ma non è la versione che abbiamo deciso di scegliere, poiché al contempo era anche il peggior attacco dell’intera lega. La scelta è ricaduta sull’annata 1961-62, poiché, lungi dall’assenza di John Havlicek, non ancora entrato nella lega, i Celtics di Bill hanno disputato anche la loro miglior stagione offensiva. Sia chiaro, anche qui sono stati tutt’altro che eccellenti, ma il loro ritmo era elevatissimo, grazie al famoso Celtics fastbreak, che partiva da una stoppata di Russell e si chiudeva con un rapido canestro in contropiede viaggiando a velocità altissime in campo aperto, reso superiore a quello di fine decennio dalla presenza di Bob Cousy, che permetteva di gestire i possessi in velocità da primo grande play della lega quale era, coinvolgendo anche Bill nella sua metà campo, date le sue inumane doti di corridore ed atleta. I Celtics vinsero 60 partite, ma viaggiando ad un ritmo di 63 (8.25 SRS), aumentando dell’8.1% gli assist rispetto all’anno precedente e chiudendo la stagione con un Net Rating di +7.0. Ai Playoffs ebbero tutt’altro che vita facile, sfidando i Philadelphia Warriors del Wilt Chamberlain da 50 di media ed i Lakers non ancora West-centrici, ma forse con il miglior Elgin Baylor di sempre. I Warriors portarono Boston a gara 7, ma Wilt, che negli incontri stagionali con Bill aveva già abbassato la sua media da 50 punti a 37, in questa serie venne ulteriormente limitato da un monumentale Russell a poco più di 33. Vinti in 7 gare anche i Lakers, Boston conquistò il suo quinto titolo in sei anni, con ancora più della metà da conquistarne negli anni a venire. Difficile scegliere un’annata specifica, ma la continuità dei risultati dilazionata in tredici anni rende impossibile dire che questa non sia stata la più grande dinastia della storia della pallacanestro.
14. Cleveland Cavaliers 2016-17

No, non i Cavs della storica rimonta, bensì quelli dell’anno successivo, seppur rimasti a bocca asciutta. Il motivo è semplice, nonostante anche i numeri non siano estremamente favorevoli, i Cleveland Cavaliers del 2017 erano una squadra superiore a quella dell’anno prima. Una stagione regolare travagliata e ricca di problematiche difensive porta i Cavs ad un record di sole 51 vittorie (2.87 di SRS, addirittura un ritmo da 49 vittorie), e solo il settimo risultato della lega per net rating. La cosa che però faceva ben sperare i tifosi era il quantitativo di sconfitte arrivate tutte contemporaneamente, sintomo di come quando Cleveland non fosse sintonizzata potesse perdere con chiunque, ma una volta sprigionato il vero potenziale, vincere con chiunque. A gennaio Cleveland perse 8 gare delle 15 disputate, e dopo la pausa per l’All Star Game la situazione andò peggiorando ulteriormente (solo 12 vittorie in 27 partite). Però la regular season va sempre presa come un indicatore meno importante del successo ai Playoffs, ed i Cavs lì, appena iniziata la vera competizione, hanno massacrato ogni avversario nella loro Conference. Nonostante le arcinote lacune difensive, hanno sfoderato un attacco persino superiore a quello degli invincibili Warriors (120.3 di ortg), arrivando in finale con un record di 12-1, culminando con un 4-1 contro i Boston Celtics primi ad Est ed un net rating in quella serie di +21.4!!!. In finale, Cleveland perse 4-1 contro Golden State in una finale molto più tirata di quanto il risultato non dica, sfoderando anche la probabile miglior prestazione della storia delle Finals NBA in gara 4, segnando 137 punti con il 68% di true shooting e 24 triple mandate a bersaglio, record ogni epoca in una finale. Forse sarebbe stato più corretto inserire i Cavs campioni in questa classifica, ma la netta sensazione è che il livello mostrato in questi Playoffs sarebbe stato sufficiente per battere i Warriors dell’anno prima in molto meno di 7 gare.
13. Houston Rockets 2017-18

Nel 2018 i Rockets formarono una squadra costruita con l’unica caratteristica essenziale di battere i Golden State Warriors. I principi ferrei di Darryl Morey portarono Houston a firmare in estate Chris Paul, che avrebbe praticamente mantenuto invariato l’assetto dei Rockets quando elio-Harden non fosse stato in campo. La squadra fu circondata di 3&D e di una grande presenza nel pitturato come Clint Capela, capace di cambiare in difesa e di giocare il pick and roll come pochissimi lunghi nella lega. Due maestri del pick and roll e dell’inside-outside game come Harden e Paul giocarono seguendo lo stesso pattern per tutta la regular season, e raccogliendo i risultati che Morey e D’Antoni si aspettavano. I Rockets chiusero con il miglior record della lega, 65-17, un SRS di 8.21 (ritmo da 63 vittorie), un net rating di +8.7, il miglior attacco della lega (114.7 di ortg, +6.1), e soprattutto un upgrade notevolissimo in difesa. L’attacco infatti era già eccellente l’anno precedente (114.7, il medesimo), ma in difesa Houston faceva fatica, ed i MEME sulla difesa del Barba si sprecavano. Nel 2018 la difesa dei Rockets, con un Harden con meno carico offensivo ed un play difensivamente eccellente come CP3 passò dall’essere la 18^ alla 6^ migliore della lega. E soprattutto, resse negli incontri stagionali contro Golden State, facendo intuire che per matchup, Houston se la sarebbe potuta giocare fino in fondo. Harden fu premiato MVP della stagione regolare, e dopo aver battuto in 5 gare i Twolves di Jimmy Butler e gli Utah Jazz del rookie Donovan Mitchell arrivò il test tanto atteso: i Golden State Warriors. Houston giocò forte per davvero, tanto da andare in vantaggio per 3-2, ma un infortunio per Chris Paul sul finire di gara 5 aprì ai Warriors una speranza di rimonta. E gli stessi principi di Moreyball che furono delizia dei Rockets, li misero in croce in gara 6 e 7, che giocarono molto al di sotto delle loro possibilità. Non potremo mai sapere se con Paul i Rockets avrebbero portato a casa la serie, ma le probabilità erano elevate, e di lì sarebbe rimasto solo da battere una Cleveland contro la quale partivano ampiamente da favoriti.
12. Boston Celtics 2007-08

Il primo superteam della storia moderna: i Boston Celtics di Allen, Pierce e Garnett. La prima stagione di questo esperimento si rivelò pienamente riuscita. 66 vittorie in stagione, 9.3 di SRS (ritmo da 65 vittorie), un margine di scarto medio di 10.26 punti, un mostruoso +11.2 di net rating ed una delle migliori difese di tutti i tempi (-8.6 rdrtg), guidata dal Difensore dell’anno Kevin Garnett. Ai playoffs però i Celtics fecero un po’ più fatica del previsto, ed infatti una posizione che poteva essere abbondantemente più elevata è figlia di una problematica: l’incapacità di vincere le partite combattute. Nonostante i Celtics infatti abbiano perso 10 gare su 26 infatti, il loro net rating resta comunque molto positivo (+6.1). Nel primo turno contro Atlanta, Boston si spinse fino a gara 7, con uno scarto medio di 25 punti nelle 4 gare vinte e le tre perse tutte in singola cifra di svantaggio. Il copione, esclusi i Cavs, con i quali il confronto fu più equilibrato (per chi non l’avesse fatto, guardate gara 7), si ripeté anche con Pistons e Lakers, e la gara conclusiva con cui i Celtics sigillarono la loro vittoria fu un massacrante 131-92. Questo trend fu presente anche in stagione regolare, ed i Boston Celtics del 2008 sono a tutti gli effetti la peggior squadra della storia nel clutch time (5 punti di scarto o meno negli ultimi 5 minuti). In stagione la loro efficienza realizzativa nel clutch si abbassò di 0.16 punti per tiro, Garnett segnò solo 0.82 punti per tiro tentato, e Pierce un orrido 0.54. Come detto ai Playoffs la situazione peggiorò: 22/70 nel clutch time (32%) e 2/18 da 3 ( Ray Allen segnò 0.66 punti per tiro, Pierce un imbaarazzante 0.14). Nelle gare decise da 5 o meno punti i Celtics persero 13 gare su 27 tra stagione regolare e Playoffs. Come mai? Sicuramente avere coach Doc Rivers in panchina non ha aiutato. Questo in un ipotetico scontro contro i colossi che seguiranno potrebbe non aiutare, poiché Boston non può di certo vincere ogni gara di 20 punti, perciò non possiamo spingerci oltre il 12° posto.
11. Miami Heat 2012-13

Il 2012-13 è strato l’anno sportivo di grazia per LeBron James, che ha vinto letteralmente tutto il vincibile tranne il DPOY, riguardo il quale, ancora oggi ogni tanto sentiamo lui stesso dolersi. Gli Heat del 2013 però non sono LeBron, Wade e Bosh; sono una squadra complessissima e tutt’altro che riducibile alla somma dei tre elementi. La definitiva esplosione di questa squadra, autrice di 66 vittorie in stagione e di una striscia di 27 vittorie consecutive, è stata figlia di un cambiamento tattico graduale, nato nel 2012 e perfezionato nel 2013. Wade e James smisero di spartirsi equamente i possessi, e con un Wade fortemente limitato dal mal di schiena e lontano parente del giocatore visto due anni prima, gli Heat presero il volo. Come mai? Wade e James sono tutto fuorché il miglior duo di sempre come spesso si suol dire. Sono stati due giocatori sovraumani estremamente simili, e quindi una volta appaiati, non complementari, ma al contrario che invadevano l’uno gli spazi dell’altro. La presa di coscienza di Wade del suo calo, il lasciare più possessi a James, ed al contempo un LeBron più sfruttato come terminale offensivo anche senza palla, quando i possessi li gestiva l’amico fraterno, hanno portato Miami ad un +6.4 di Relative ortg (secondo miglior attacco della lega, due punti meglio dell’anno precedente). Ai playoffs, l’importanza di Ray Allen e Mario Chalmers per spaziare un campo fin troppo chiuso da Wade e James più l’utilizzo di Bosh da stretch-5 (a tutti gli effetti impiegato come un role player, anche se di livello clamoroso) hanno permesso a Miami di battere anche l’ostica difesa dei Pacers di Paul George e della sequoia Roy Hibbert, che finchè circondato da buoni difensori perimetrali, era in grado da solo di non far segnare nei pressi del ferro. Lo stesso discorso può essere traslato contro i San Antonio Spurs di Tim Duncan, ma lì fondamentale fu anche la svolta nel tiro da fuori che lo stesso Bron ebbe da metà serie in poi. I nomi farebbero pensare ad un superteam, le partite a tutt’altro, ovvero ad un giocatore immensamente superiore al resto del mondo, circondato da una ex superstar al crepuscolo più altri giocatori funzionali a riparare al pessimo fit tra i due. Questo rende gli Heat indubbiamente una super squadra, ma come detto, tatticamente rivedibile.
10. Philadelphia 76Ers 1982-83

Sembrerà strano da dire per una squadra di Julius Erving, ma davvero non so se i Sixers del 1983 dopo l’acquisto dell’MVP in carica Moses Malone fossero più forti o più brutti. Phila, allenata da un loro leggendario ex giocatore, Billy Cunningham, aveva raggiunto le finali NBA già nel 1982, ed anche nel 1980, perdendo sempre contro gli Showtime Lakers. L’acquisizione di un MVP per una squadra che aveva appena perso le Finals vi ricorda qualcosa? Già anche a noi. E l’esito non è stato troppo differente. In stagione o SIxers hanno dominato con un record di 65-17, (addirittura 43-7 prima della pausa All-Star), un SRS di 7.53 (ritmo da 61 vittorie), e sia attacco che difesa tra i primi 5 della lega. Dopo l’All Star Weekend i ritmi si sono decisamente rilassati, ma appena iniziato i Playoffs i Sixers hanno ripreso ad essere la macchina da guerra della prima parte di stagione. L’arma in più era infatti uno dei più grandi e meno ortodossi rimbalzisti della storia NBA, parcheggiato sotto canestro a racimolare le briciole di ogni attacco non perfettamente riuscito da parte di Philadelphia. Addirittura voci autorevoli di contemporanei affermano che a volte sbagliasse intenzionalmente il tiro per riprendere il rimbalzo in posizione più comoda. Ed ogni possesso che finiva tra le mani di Moses terminava o con un canestro dopo innumerevoli rimbalzi o con un viaggio in lunetta, non c’era altro modo. Così facendo, il miglior rimbalzista offensivo della storia guidò i 76Ers a dei Playoffs estremamente agevoli, battendo ogni avversario con facilità e concludendo i Playoffs con 15 vittorie ed una sola sconfitta, arrivata contro i Bucks già sopra 3-0, dunque con la serie non a rischio. L’unico difetto di questi Sixers sarebbe potuto essere proprio l’esposizione ad un contropiede data dai rimbalzi lunghi, e chi più adatto a punire in contropiede dei Lakers? In finale le squadre si reincontrarono e Phila pur di ovviare a questo problema non tirò mai da dietro l’arco. In stagione furono penultimi per triple tentate a partita, meno di una e mezza. Ai Playoffs questo dato scese ancora a soli 10 tentativi dietro l’arco in tutta la postseason, la maggior parte tiri della disperazione allo scadere. Convertiti? Solo uno. Così facendo Malone dominò il suo spicchio di campo contro i Lakers prendendo più rimbalzi in attacco che qualsiasi altro giocatore anche in difesa (!), persino più dei 218 cm di Kareem Abdul Jabbar.
Il dominio resta, ed il valore della rosa anche di più, nella storia del basket. Certo, un sistema di gioco più antico della propria epoca, ed anche se vincente, senza prosecutori di successo, e senza capacità di ripetersi, non può che lasciare questa squadra nella parte bassa della top 10.
9. San Antonio Spurs 2013-14

La squadra rimasta più nel cuore di ogni appassionato del basket moderno. I beautiful game Spurs. Dopo un insuccesso nelle Finals del 2013, perse per il rotto della cuffia contro i Miami Heat, gli Spurs furono costretti a rivedere le proprie gerarchie, minimizzando le responsabilità di un ormai anziano Tim Duncan ad ancora difensiva e tentando di far emergere come stella del futuro un giovane Kawhi Leonard. Il principio che guidò la squadra di Popovich fu quello del from good to great, ovvero aumentare il vantaggio generato in ogni microesecuzione, in modo da ottenere, alla fine dell’azione, il miglior tiro possibile. Così facendo gli Spurs ottennero la seconda miglior efficienza realizzativa della lega dopo i Miami Heat, il miglior record in NBA (62-20), il miglior SRS (8.00, un ritmo da 63 vittorie), il maggior margine di vittoria (7.72) e net rating (+8.1). Ai Playoffs, dopo essersi spinti fino a gara 7 nel primo turno contro Dallas, il gioco di San Antonio spiccò il volo, battendo i Blazers in 5 gare, i Thunder dell’MVP, Kevin Durant in 6 e per finire i campioni in carica, i Miami Heat di LeBron James in 5 gare, con un net rating di +16 contro la franchigia della Florida ed in generale di +10 in tutti i Playoffs (il secondo i Clippers a solo +2). La totale assenza di gerarchie offensive rese San Antonio una squadra in cui ognuno si responsabilizzava a seconda della giornata, dell’azione, del momento, portando anche role players a produrre prestazioni talvolta stellari. Forse ciò che ci impedisce di far scalare altre due o tre posizioni a questi Spurs è proprio questo: sono la squadra più forte di sempre senza superstars, ma per risultati ottenuti, sistema di gioco, epigoni ed imitatori, ed anche a livello statistico, reggono tranquillamente la conversazione con le prossime tre posizioni che seguiranno.
8. Philadelphia 76Ers 1966-1967

“(Jack Ramsay e Alex Hannum) sono due delle più fini menti, incustodite o meno, del basket. Ci sono dubbi che qualsiasi franchigia abbia mai migliorato il proprio management in maniera spettacolare quanto quella dei 76ers quest’anno. La squadra era già eccellente… Philly ottiene nuovamente Larry Costello, e i 76ers sono più giovani di Boston e hanno un allenatore a tempo pieno.”
Sports Illustrated, estate 1966Dopo 57 anni possiamo sottoscrivere ogni singola parola.
Alex Hannum era già stato coach di Wilt Chamberlain ai San Francisco Warriors, ed era stato l’unico capace di ridurne l’impiego eccessivo poiché aveva capito che a nessuna squadra con aspirazioni vincenti servisse che un solo giocatore segnasse 50 punti di media. Ai 76Ers Hannum impone a Wilt di non giocare più tutti i minuti senza mai uscire, ma assegna a Luke Jackson almeno 10 minuti a gara da centro. Ed ogni 10 minuti di ritardo per Wilt costavano 10$ di multa. Ah e niente più voli privati. La superstar della squadra non sarebbe più stata trattata coi guanti di velluto, ma con una disciplina ferrea. I tentativi di Wilt dal campo diminuirono da 25 a 14, i suoi punti da 33 a 24, ma guiderà la lega per percentuale dal campo ed i suoi assist aumentarono da 5 fino a quasi 8, gli assist di squadra aumentarono del 10.4% rispetto all’anno precedente e soprattutto le vittorie passarono da 55 a ben 68, ai tempi il miglior record della storia. I Sixers arrivarono ai Playoffs con il miglior attacco della lega (+5.4 rortg), batterono 4-1 i Royals di Oscar Robertson e Jerry Lucas, i Boston Celtics reduci da 8 titoli consecutivi (anche se si dice con un Bill Russell non al top della forma), ed in finale i Golden State Warriors di Rick Barry e Nate Thurmond. I Sixers terranno un net rating di +7.4 nei Playoffs, tre giocatori sopra i 20 di media (Hal Greer, Chet Walker e lo stesso Wilt), cosa che con il vecchio Chamberlain sarebbe stata impensabile, e solleveranno il titolo NBA. Questa è la miglior versione di una squadra che tenterà di ripetersi l’anno successivo, ma senza successo a causa del ritorno dei Boston Celtics a pieno regime ed a causa di un Wilt questa volta intestardito all’opposto nel vincere la classifica degli assist. Questa squadra, all’opposto di San Antonio, era costellata di superstar, oltre che come detto ben allenata, e potrebbe scalare un paio di posizioni, ma sia per il periodo storico, sia per una supremazia che per quanto notevole si rivela inferiore rispetto a tutte le squadre che seguiranno, si posiziona ottava in questa classifica.
7. Boston Celtics 1985-86

Non poche, specie in tempi recenti, sono state le crociate di alcune testate giornalistiche per sostenere che i Celtics del 1986 siano stati la squadra più forte di tutti i tempi. Per i criteri che questa classifica ha deciso di operare, questa squadra sebbene possa spingersi un paio di posizioni più in alto non arriva comunque ad insidiare le primissime della classe. È però da considerarsi essenzialmente un sesto ex-aequo con la squadra che succederà, preferita in necessità di ranking per motivi che esporremo in seguito. I Celtics aggiunsero al loro roster, già di grande spessore e reduce da due finali consecutive contro i Lakers (l’ultima persa), un veteranissimo comunque capace di offrire un grande impatto sia come playmaking che come apporto difensivo, ovvero Bill Walton, campione nel 1977 con i Trail Blazers. Insieme all’ancora Robert Parish, Dennis Johnson, le lunghe braccia di Kevin McHale e gli istinti di Larry Bird, Walton aiutò i Celtics a migliorare la propria difesa fino a scalare la vetta della classifica in NBA, passando dalla quinta migliore nel 1985 (-1.6 relative drtg) alla migliore nel 1986 (-4.6). Anche offensivamente Boston si dimostrò capace con il terzo miglior attacco dopo quello dei Mavs e dei Lakers, attacco che sarebbe migliorato ancora costantemente nei due anni successivi, raggiungendo nel 1988 il miglior risultato della storia relativamente alla lega fino ai Golden State Warriors del 2016 (+7.4). La difesa di quei Celtics fu però mediocre, per non dire molto scarsa, ed il loro attacco stellare non resse i ritmi da Playoffs. Al contrario nel 1986 i già eccellenti Celtics migliorarono di molto in entrambe le categorie iniziate le partite che contavano. Dopo aver vinto 67 partite (in casa uno spaventoso record di 40-1), con un SRS di 9.06 (ritmo da 65 vittorie), un Net Rating di +9.2 ed il miglior record indiscusso della lega, Bird fu premiato con il suo terzo MVP consecutivo, i Celtics sweeparono i Chicago Bulls di Michael Jordan nonostante la celebre gara 2 da 63 punti, batterono 4-1 gli Atlanta Hawks di Dominique Wilkins e conclusero un altro sweep ai danni della seconda potenza ad Est nonché seconda difesa della lega, i Milwaukee Bucks di Sydney Moncrief, battendoli con uno scarto medio di 15 punti e segnando loro 118 punti di media (in stagione i Bucks ne avevano subiti mediamente poco più di 105). La finale? Non contro gli Showtime Lakers bensì contro gli Houston Rockets delle Twin Towers: Hakeem Olajuwon e Ralph Sampson. La stazza dei Rockets mise più in difficoltà i Celtics di qualunque altra squadra, ma furono costretti a capitolare in 6 gare. I Celtics chiusero i Playoffs 1986 da campioni NBA con 15 vittorie e sole 3 sconfitte ed uno scarto medio sulle avversarie di 10.4 punti ogni 100 possessi.
6. Los Angeles Lakers 1986-87

Statisticamente identici ai Celtics dell’anno precedente, come detto sarebbe dovuto essere un ex-aequo, ma ciò che fa pendere l’ago della bilancia leggerissimamente a favore dei Lakers è che in finale hanno sconfitto proprio i Celtics, seppur come detto difensivamente peggiorati, mentre Boston non ha mai incontrato nei Playoffs del 1986 i Lakers, che però, pur essendo una grande squadra erano radicalmente diversi dalla corazzata dell’anno successivo. Dopo un’esplicita dichiarazione di coach Pat Riley, il gioco dei Lakers si sarebbe focalizzato sempre meno su Kareem Abdul-Jabbar e sempre più su Magic Johnson, che si sarebbe dovuto prendere più responsabilità anche come scorer. Il compiuto fu recepito alla perfezione da Magic che nel 1987 completò il suo arsenale offensivo aggiungendo anche un gioco in pick and roll e vinse il suo primo MVP portando a termine quella che verosimilmente è la sua miglior stagione in carriera, nonché una delle più grandi stagioni offensive di sempre. Magic guidò i Lakers a 65 vittorie con un SRS di 8.31 (ritmo da 63 vinte), un Net Rating di +9.1 ed il miglior attacco della storia fino ad allora (+7.3), come detto superato solo un anno dopo dai Celtics. I Lakers però aumentarono ancora il ritmo dopo la pausa All Star vincendo 30 partite su 35 e dominando tutta la postseason. Sweep ai Nuggets, 4-1 ai Warriors, sweep ai Supersonics. Poi per concludere un 4-2 rifilato agli arcirivali Celtics. L’attacco dei Lakers nei Playoffs toccò vette inesplorate fino ad allora (119.9 di ortg elevando il già mostruoso 115.6 della regular season) e vinsero tutte le gare con uno scarto medio di +11.3 punti per 100 possessi. Magic fu premiato chiaramente come MVP delle finali. Come detto, questa posizione e la precedente sono intercambiabili, e contro i Lakers si potrebbe argomentare che la competizione affrontata nella Western Conference sia stata davvero bassa rispetto a quella dei Celtics, arrivati anche nel 1987 stremati in finale dopo aver battuto in 7 gare i Bucks ed i Bad Boys Pistons (ribaltando clamorosamente una serie già persa con la famosa “steal by Bird”, ed al primo turno ancora una volta i Bulls di MJ. Il repeat dei Lakers nel 1988 ci fa pensare però che anche con l’età che avanzava questi ultimi siano stati capaci di “invecchiare meglio”.
5. Los Angeles Lakers 2000-01

È stato difficile trovare una giusta collocazione per questa squadra, così come preferirla ai Lakers dell’anno precedente, ben più costanti nel corso della stagione. Nel 2000 infatti abbiamo visto il miglior Shaquille O’Neal di sempre, dei Lakers primi ad Ovest con un record di 65 vittorie, un net rating di +9.1 e la miglior difesa della storia della franchigia (-5.9 relative drtg). Nei Playoffs però nonostante la vittoria c’èe stato più di qualche momento di difficoltà, uno su tutti contro i Portland Trail Blazers. La difesa dei Lakers concesse in media 107.5 punti per 100 possessi contro i soli 98 della stagione regolare, a causa del continuo portare Shaq lontano da canestro grazie alla pericolosità da fuori di Sabonis e Sheed. Anche nel 2002 con Chris Webber e Vlade Divac i Kings tentarono quasi con successo la stessa tattica, perdendo come detto ad inizio articolo, solo a gara 7. Nel 2001 i Lakers trovarono sia Portland che Sacramrento ed il risultato fu di due sweep in una run da Playoffs clamorosa che avrebbe visto mandati a casa con un cappotto anche i San Antonio Spurs, prima testa di serie, ed in 5 gare i 76Ers, solo perché una gara 1 rimasta nella storia del basket di Allen Iverson impedì ai Lakers il totale percorso netto. In stagione regolare però i Lakers faticarono, non riuscendo ad andare oltre le 56 vittorie, un SRS di 3.74 (addirittura ritmo da 52 vittorie), un net rating di +3.6 (sette squadre hanno fatto meglio) e solo la 21^ difesa della lega, molto peggiorata rispetto all’anno precedente. La spiegazione è dovuta a problemi sia di forma fisica che di alchimia di squadra. Dopo il titolo del 2000 Shaq sembrava stanco di giocare e Phil Jakcson disse di non pensare al basket fino a settembre e di godersi la vittoria. Fu preso alla lettera, anzi forse esagerando anche un po’. O’Neal non si presenterà ad un allenamento fino al…28 settembre, pochi giorni prima dell’inizio della preseason. Kobe invece, non smetterà di allenarsi per tutta l’estate, cercando di alzare il proprio livello di gioco e di essere riconosciuto come il giocatore più forte di tutti. L’equilibrio della passata stagione era ormai andato perduto, e Shaq fu il primo ad accorgersene. Dopo 60 partite però, due avvenimenti contribuirono a ristabilire ordine: il rientro di Derek Fisher e incredibilmente l’infortunio di Kobe Bryant. Chi mai avrebbe pensato che se una stella come Kobe si fosse fatto male la squadra sarebbe migliorata? Al suo rientro, Kobe provò ad essere più altruista nei confronti della squadra, mettendo da parte le manie di inizio stagione, e con Fisher disponibile nelle ultime 25 gare, i Lakers chiusero la stagione con 20 vittorie. Ai Playoffs alzarono ulteriormente l’asticella con la miglior difesa ed il miglior attacco della postseason. I Lakers spazzarono via tutti, ed i miglioramenti reali di Bryant, questa volta si fecero notare a servizio della squadra. Con un Net Rating di +13.7 (il più alto della storia dei Playoffs, imparagonabile sia al +2.6 del titolo precedente che al +4.1 del successivo), i Lakers chiusero la postseason con un record di 15 vittorie e solo una sconfitta, non perdendo neanche una singola gara prima della finale. Come detto, la collocazione è stata difficile ed a seconda del peso che si da ai singoli aspetti, questi Lakers potevano scivolare più in basso di due o tre posizioni, ma anche salire di altrettanto. La parte bassa della top 5 ci sembra un buon compromesso.
4. Milwaukee Bucks 1970-71

Oscar Robertson, Mr Triple Double, nonché verosimilmente il miglior giocatore offensivo della passata generazione, nell’estate del 1970 si accasò con i Milwaukee Bucks, raggiungendo Kareem Abdul-Jabbar e formando un duo che avrebbe dominato la lega quell’anno. I Bucks fecero registrare il miglior SRS di tutti i tempi, 11.91 (un ritmo da 70 vittorie), un Net Rating di +10.8, il miglior attacco (+6.7 rortg) e la miglior difesa della lega (-4.1 rdrtg), perdendo solo due gare in casa su 36 disputate. Kareem fu premiato come MVP della stagione regolare e non sarebbe stato l’unico premio sollevato in quella stagione. I Bucks passeggiarono per tutti i Playoffs, vincendo 4-1 contro i San Francisco Warrriors, 4-1 contro i Lakers (privi però di West e Baylor) e 4-0 in finale contro i Washington Bullets. Il gancio cielo di Jabbar fu inarrestabile per un giocatore come Wes Unseld, che per quanto dotato difensivamente, concedeva 20cm al lungo della franchigia del Wisconsin. Ai Playoffs i Bucks fecero registrare il terzo miglior net rating di sempre (+13.4). I Bucks con il lungo in post basso come Kareem, un play come Big O che essenzialmente aveva inventato un modo di punire le difese col pick and roll e sapeva coinvolgere i lunghi oltre che segnare, ed un ala come Bob Dandridge formò il modello di pallacanestro offensiva ideale da cui attingere per tutti gli anni ’70. Questa squadra sarebbe potuta salire di un’altra posizione, e come con i Celtics del 1986 ed i Lakers del 1987 consideriamo i Bucks del 1971 e la squadra che seguirà un terzo posto ex-aequo. Il motivo però per cui abbiamo deciso di posizionarli un gradino più in basso verrà immediatamente spiegato.
3. Los Angeles Lakers 1971-72

Nell’estate 1968 i Los Angeles Lakers firmarono Wilt Chamberlain. Era nato il primo superteam della storia NBA. Il flop però fu clamoroso, non tanto per la sconfitta in gara 7 contro i soliti attempati Celtics, quanto per il reale peggioramento di cui i Lakers soffrirono dall’arrivo di Wilt. Los Angeles, accantonata definitivamente la supremazia offensiva di Elgin Baylor in favore di Jerry West, giocava uno splendido attacco Princeton, coordinato da coach Butch Van Breda Kolff. Il movimento perpetuo dei Lakers portò la franchigia di Los Angeles al miglior attacco della lega. L’arrivo di Wilt che si parcheggiava in post in attesa di ricevere e bloccava il gioco della squadra mal si adattava ai principi di Princeton di coach Kolff che fu vergognosamente esonerato a fine stagione. I Lakers tentarono di farsi guidare da Joe Mullaney, ma arrivarono due insuccessi consecutivi contro i Knicks nel 1970 e contro i Bucks nel 1971. La svolta arrivò con Billy Sharman, che come Hannum qualche anno prima, capì che per portare i Lakers al successo doveva limitare il superego di Wilt. Nel 1972 il centro dei Lakers tentò solo 9.3 tiri a partita, e si concentrò unicamente sul suo immenso impatto difensivo. Le chiavi dell’attacco furono riconsegnate a West ed i Lakers dominarono la Regular Season inanellando anche una striscia di 33 vittorie consecutive. Il record reciterà 69-13, fino ad allora il più alto di sempre, superando proprio quei 76ERs di Wilt e Hannum, poi campioni NBA. Ed il risultato qui sarà il medesimo. (Curioso che due tra le squadre più dominanti di sempre, nonché le uniche due in cui Wilt ha vinto, siano entrambe caratterizzate da un suo massiccio ridimensionamento offensivo?). i Lakers con il miglior net rating della lega (+10.5), il miglior attacco (+5.2 relative ortg) e la miglior difesa a pari merito coi Bucks (-5.3 relative drtg) chiusero la stagione regolare con un SRS di +11.65 (ritmo da 69 vittorie). Ai Playoffs vinsero 4-0 contro i Bulls, 4-2 contro i campioni in carica, i Bucks, che avevano interrotto la loro striscia di vittorie, ed in finale contro i Knicks 4-1, completando il loro giro di rivincite. Wilt fu premiato MVP delle Finali, dimostrando di come potesse essere impattante anche senza cinquantelli. I Lakers del 1972 sono stati preferiti ai Bucks poiché i secondi nel 1972 erano essenzialmente la stessa squadra dell’anno precedente, e negli scontri diretti ne escono sconfitti. Negli scontri ai Playoffs contro i Bucks, nonostante “ai punti” risultno inferiori, avendo vinto tre gare su quattro con uno scarto di quattro o meno punti, ed avendo perso di 21 e 26 nelle due uniche sconfitte, la serie è comunque andata ai Lakers per 4-2, e nonostante i Bucks abbiano interrotto anche la striscia di 33 vittorie consecutive, nei restanti 4 incontri stagionali sono arrivate 4 vittorie da parte della franchigia Losangelina.
2. Chicago Bulls 1995-96

I Bulls del 1996 sono riusciti a prevalere su quelli dell’anno successivo e su quelli del 1992 come miglior versione dei Chicago Bulls di Michael Jordan. Statisticamente infatti risultano superiori ad entrambe le versioni in ogni aspetto nelle quali le due scartate comunque sono eccellenti, e si sarebbero ritagliate un posto in classifica non troppo lontano da questo. Nel 1996 i Bulls vinsero 72 partite in stagione regolare, con un SRS di 11.8 (ritmo da 70 vittorie), un Net Rating di +13.4 (miglior risultato di sempre in stagione regolare), ed attacchi e difese letteralmente da far girare la testa. I Bulls infatti fecero registrare un relative offensive rating di +7.6 ed un relative defensive rating di -5.8, entrambi ampiamente primi in NBA. Ai Playoffs il risultato non cambiò e Chicago passeggiò con 11 vittorie ed una sola sconfitta fino alle Finals, sweepando in finale di Conference gli Orlando Magic di Penny e Shaq. In Finale dopo essere andati sopra 3-0, il cambio difensivo di Payton su Jordan inceppò leggermente la macchina perfetta, portando due vittorie consecutive ai Sonics, salvo poi capitolare in gara 6 con dei Bulls che seppero come cavarsela anche nella peggior serie di finale giocata da Michael Jordan. Non c’è troppissimo da dire sui Bulls che non sia stato già detto, così come vederli salire fino al primo posto sarebbe tutt’altro che un’eresia, poiché hanno tutte le credenziali per essere la miglior squadra di tutti i tempi. Il secondo posto è essenzialmente figlio di due motivazioni: il primo è che Chicago costituzionalmente (e Jordan più di tutti) ha beneficiato di una regola che David Stern ha attuato dal 1995 al 1997, anni in cui non a caso i Bulls sono stati ancor più dominanti del solito, ovvero l’aver accorciato la linea dei 3 punti da 7 metri e 25 cm a 6 m e 75 cm. Il gioco di Jordan in particolare, maestro del mid range ma con da sempre problemi da 3 punti, probabilmente dovuti alla sua meccanica di tiro che ne limitava il range, è stato notevolmente semplificato da questa misura, poiché i difensori tentavano più disperatamente di contestare un tiro che sarebbe valso un punto in più, aprendo più spazi liberi in area. La percentuale da 3 di MJ salì dal 30% al 40% in quegli anni nonostante un aumento di volume, ed è inutile dire quanti punti in più conferisca un cambiamento così ampio. Il secondo motivo è anch’esso legato al periodo storico, ma è meno di natura tecnica e più di natura “filosofica”. Nel 1996 le gare anche in serie di 7 partite di Playoffs venivano preparate e poi giocate seguendo un copione fisso, che era essenzialmente quello di rispettare il proprio gameplan e di giocare con un read and react. Non erano presenti maniacali aggiustamenti e scouting reports di pagine e pagine, e quindi una banale mossa come il mettere in marcatura Payton su Jordan ha rischiato di inceppare una macchina perfetta come quella dei Bulls, che dopo gara 3 non hanno più toccato quota 90 punti, ed ha fortemente limitato l’apporto offensivo di MJ, il miglior giocatore al mondo.
1. Golden State Warriors 2016-17

Al primo posto i Golden State Warriors la spuntano sui Bulls. Dopo una stagione da 73 vittorie e 9 sconfitte ed un titolo perso per il rotto della cuffia, il 4 luglio 2016 Golden State ha firmato Kevin Durant, rompendo letteralmente la competizione in NBA. I Warriors nel 2016 avevano fatto registrare il miglior attacco della storia relativamente alla media della lega (+8.1), ed aggiungere ad una macchina del genere un giocatore scalabile come Kevin Durant avrebbe portato quell’attacco a rinforzarsi ancora di più. Golden State concluse la stagione con 67 vittorie ed un SRS di 11.35 (ritmo da 69 vittorie), ma che nelle gare che Kevin Durant non aveva saltato per infortunio saliva addirittura ad un ritmo da 73! Con un Net Rating di +11.6, il miglior attacco della lega (+6.8 rortg) e la seconda miglior difesa (-4.8), i Warriors agguantarono il primo posto nella Conference. La celebre death lineup dei Warriors produsse un insensato Net Rating di +23.4, e difensivamente, con Draymond Green schierato da centro, soffocò gli avversari non avendo praticamente punti deboli. Green a fine anno fu premiato come Defensive Player of the Year. Ai Playoffs il “quintetto della morte” fu ancora più devastante, producendo un Net Rating di +27 e sfiorando numeri mai visti in quasi ogni voce statistica. Golden State con Durant a mezzo servizio asfaltò Portland e Utah nei primi due turni, e nel 2017 l’infortunio di un Kawhi Leonard in stato di grazia ci privò di una serie che forse sarebbe stata più comnbattuta. Purtroppo, privi della loro superstar anche gli Spurs vennero fatti fuori in 4 gare. Arrivati in finale con un record immacolato, i Warriors non si fermarono davanti ai Cavs campioni in carica, e solo dopo essersi accomodati sul 3-0, pronti a chiudere la serie, concessero una gara a Cleveland, che come scritto precedentemente sfoderò una delle prestazioni di efficienza offensiva più incredibili di sempre. I Warriors però archiviarono la pratica in gara 5. Stephen Curry chiuse la serie a 27 di media ed il 62% di true shooting, prendendo il 22.4% delle sue conclusioni da smarcato, a testimonianza del fatto che anche il miglior tiratore di sempre, in una squadra del genere, alle volte era considerato il male minore. Kevin Durant, l’MVP delle finali, chiuse la serie a 35 punti di media e con il 70% di true shooting, anche lui prendendo il 26.2% dei suoi tiri da smarcato. Le spaziature dei Warriors che giocavano 5 fuori, con continuo movimento senza palla, giocatori capaci di attaccare i closeouts, blocchi per liberare i tiratori ed un ritmo molto elevato per attaccare le difese non ancora schierate hanno segnato il basket che sarebbe venuto dopo, ed ancora oggi questo sembra il miglior tipo di attacco al quale ogni squadra possa aspirare. Al contempo, una difesa capace di cambiare su ogni matchup, capace al contempo di avere un’ancora come Green, dei difensori sull’uomo come Iguodala e Thompson e le braccia lunghissime di Durant in aiuto sono ancora oggi a distanza di 6 anni quanto di più moderno possa esistere, ed ancora oggi nonostante ci siano stati nuovi innesti della lega, questi sistemi non risultano sempre attuabili. Il 16-1 di Golden State è il miglior record della storia dei Playoffs NBA, ed il loro Net Rating di +13.5 si posiziona secondo dietro ai Lakers del 2001. Come detto, scegliere i Bulls non sarebbe stato eretico, e possiamo dire con abbastanza confidenza che per i Warriors è sicuramente impossibile scendere oltre la seconda posizione, ma il primo posto ci sembra decisamente più adeguato.
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NBA Draft: Capitolo Hype

La Lottery
Il 16 maggio a Chicago si è tenuta la draft lottery, ed i risultati hanno probabilmente portato i San Antonio Spurs ricoprire il Texas di ettolitri di champagne. Il loro 14% di possibilità di ricevere la prima chiamata assoluta si è infatti tramutato in realtà e con una delle chiamate probabilmente meno discutibili e dubbiose di tutti i tempi, il 22 giugno al Barclays Center di Brooklyn sceglieranno Victor Wembanyama.
Hype
Il Draft 2023
Il francese, dall’alto dei suoi 225 cm circa mostra caratteristiche tecniche fuori da ogni logica, tanto che già da tempo gli sono state riservate copertine su i più importanti giornali sportivi in tutto il mondo.
Un “hype” che secondo Mike Wilbon di ESPN è addirittura superiore a quello che ebbe LeBron James nel 2003 che già a 14 anni ebbe il suo volto riportato in copertina su Sport Illustrated; la pagina Instagram di NBA on ESPN ha prospettato come peggiore delle ipotesi che Wemby diventi un Anthony Davis più alto; Chris Broussard addirittura si è sbilanciato nel dire che se Victor dovesse diventare del livello di Davis, Olajuwon o Durant sarebbe un fallimento. Chiaramente tutte queste prospettive sono esagerate, ed in alcuni casi rischiano di sfiorare il ridicolo, ma l’hype attorno al francese è davvero a livelli mai visti.
Quali sono i prospetti nella storia del basket con aspettative paragonabili a quelle di Victor Wembanyama?
Premessa obbligatoria, ogni tipo di valutazione transepocale che questa pagina intraprende ed intraprenderà avrà sempre come criterio il paragone tra il giocatore preso in questione ed il SUO mondo di riferimento, venendo confrontato quindi ad altri giocatori di altri periodi storici in base a come questi si pongono in rapporto con i loro contemporanei.
Yao Ming
Un giocatore cresciuto lontano dagli States, sul quale c’era molta curiosità è stato il cinese Yao Ming nel 2002. La popolarità del basket in Cina era in costante aumento, ed il gigante di 226 cm proveniente dagli Shangai Sharks divenne il primo cestista straniero della storia del Draft ad essere selezionato con la prima scelta assoluta.
“È un momento incredibile per noi scegliere Yao Ming con la prima scelta assoluta; abbiamo preso questa decisione per le sue dimensioni, per le sue capacità atletiche e per la sua comprensione del gioco. Grazie ai suoi 7’6″ (226 cm ndr), ha anche grandi capacità di passare e segnare. Quando Stern ha annunciato ufficialmente che il cinese Yao Ming era stato draftato dai Rockets con la prima scelta assoluta, i fan americani in teatro sono stati colti un po’ di sorpresa perché si aspettavano che Jay Williams fosse sotto i riflettori.”
Carroll Dawson, direttore generale degli Houston Rockets nel 2002L’hype per Yao era davvero alle stelle considerando che aveva guidato gli Sharks al loro secondo titolo nazionale consecutivo e l’NBA lo aveva adocchiato già da due anni, ma per problemi burocratici, tutte le barriere che impedivano al cinese di candidarsi sono cadute solo 15 ore prima della notte del draft, motivo per il quale è stato costretto a seguire l’evento dal suo gigantesco divano in Cina.
“Questa mattina ho ricevuto una lettera dall’amministratore delegato della CBA (Chinese Basketball Association), Xin Lancheng, che confermava che tutte le sue preoccupazioni erano state affrontate Il fatto che siamo arrivati a un’intesa così reciprocamente vantaggiosa in un periodo di tempo così breve illustra lo spirito di cooperazione e fiducia che esisteva durante queste discussioni. Questa mattina ci sono stati molti giri di congratulazioni scambiati con l’amministratore delegato Xin, i rappresentanti di Yao Ming e ufficiali degli Shanghai Sharks”
Michael Goldberg, consigliere generale dei Rockets nel 2002La carriera di Yao non ha eguagliato le enormi aspettative a causa di alcuni infortuni in serie, ma anche di un adeguamento mancato del cinese alla fisicità del basket NBA, non riuscendo a dominare i suoi colleghi afroamericani, più bassi ma più strutturati in un gioco ancora postcentrico. Non sono comunque mancate alcune buone stagioni. In seguito riportiamo altre testimonianze di giocatori ed addetti ai lavori sul prospetto Yao Ming prima che calcasse i parquet NBA.
“Penso che alla fine diventerà una forza, ma ci vorrà del tempo per svilupparsi , mi ricorda Rik Smits, ma è più grosso e probabilmente più bravo di quanto lo fosse Rik quando è entrato in NBA”
Donnie Walsh, presidente degli Indian Pacers nel 2002“Le cose che ti impressionano sono i suoi movimenti in post molto strutturati ed un tocco molto morbido vicino a canestro”
Randy Pfund, presidente e GM dei Miami Heat nel 2002“Mai una combinazione di dimensioni e abilità così straordinarie si è riunita in un unico pacchetto…ciò che rende strana questa combinazione è che viene dall’Estremo Oriente, non esattamente un focolaio per le prospettive di basket. Ma eccolo lì, 7’5″ e 300 libbre, Yao Ming è il centro del futuro; un tiratore migliore della maggior parte dei playmaker e sicuramente molto più abile della maggior parte dei centri, Ming ha tutti gli strumenti per avere successo. Al momento in cui scrivo, a Yao mancano solo l’aggressività e l’atteggiamento che lo spingeranno dall’essere un promettente pivot al completo dominatore della posizione di centro”
interbasket.net“(Yao è già) un grande giocatore. Continuerà a migliorare. È incredibile come stia già giocando nel suo primo anno. Se lo merita. Sta rendendo il gioco più globalizzato. La Cina ora sta guardando ogni partita. Ha dato molto alla NBA. Penso che meriti tutto il l’hype. Yao is the real thing. Può essere un giocatore spaventoso.”
Dirk Nowitzki nel 2003Fuori dal campo, Yao è apparso sulle copertine di Sports Illustrated, The Sporting News, ESPN the Magazine, SLAM, Inside Stuff e Basketball Digest durante la sua stagione da rookie. Nel 2003 ha anche ricevuto il premio Laureus World Newcomer of the Year ed è apparso in pubblicità televisive per Visa, Apple Computer e Gatorade.
Shaquille O’Neal
I dubbi sulla fisicità di Yao sono gli stessi che preoccupano la maggior parte dei fan riguardo Victor Wembanyama, e gli stessi che hanno impedito ad un altro super prospetto, Ralph Sampson, del quale si parlava con gli stessi termini del cinese e del francese, di dominare per lungo tempo. Discorsi del genere invece erano tutt’altro che frequenti nel 1992, quando sulla scena mondiale si affacciava un prospetto il cui nome era sulla bocca di tutti e che avrebbe svoltato le sorti di qualsiasi franchigia lo avrebbe scelto. Stiamo parlando di Shaquille O’Neal. Il gigante proveniente da LSU si era già guadagnato i titoloni di “Centro del futuro”. Il 21 gennaio 1992, cinque mesi prima della notte del Draft, Sports Illustrated gli dedicava un articolo nel quale lo descriveva come già capace di dominare in NBA a soli 18 anni. Se avete qualche minut0 da spenderci, vi consigliamo fortemente di leggerlo, per darvi un’idea delle aspettative che una delle testate sportive più celebri al mondo gli riservava:
I pareri di centri leggendari si sono sprecati nell’elogiare il big man del futuro, a partire da Kareem Abdul-Jabbar, con il quale si era appena allenato nel tentativo di padroneggiare il Gancio-cielo. L’appena ritirata leggenda del basket rispose così:
“Non chiamate Shaquille il prossimo qualcuno, lasciate che sia il primo Shaquille.”
Kareem Abdul-Jabbar, 1992Il ragazzo cresceva con personalità ed esuberanza, comportandosi come un brand prezioso, e l’interesse dei media non lo impauriva, ma accresceva a tal punto la sua autostima da permettersi anche qualche dichiarazione non proprio adatta ad un 18enne a poche ore dalla draft lottery:
“L’agente di O’Neal, Leonard Armato, ha inviato una lettera alla NBA e ai Timberwolves dicendo che O’Neal è pronto a saltare la stagione se verrà selezionato dai Minnesota Timberwolves”
deseret.com, 10 maggio 1992Per fortuna di ShaqZilla, a vincere la lottery saranno gli Orlando Magic, per i quali l’ormai ex LSU accetterà di giocare con un contratto da 40 milioni di dollari per sette anni, nonostante le sue già dichiarate simpatie per i Los Angeles Lakers, i quali aspetteranno però solo un ulteriore lustro prima di vederlo vestire i colori gialloviola.
In seguito un buffo video pubblicitario di NBA on NBC che annuncia il rookie Shaq come fosse il trailer di un blockbuster cinematografico.
Zion Williamson
Così come per Shaq, anche per Zion Williamson i dubbi sul se fosse o meno adatto alla fisicità della NBA erano ben pochi. Il carro armato di Salisbury ha gli occhi di mezzo mondo addosso da quando era all’high school, divenuto virale già nel 2016 a causa delle sue roboanti schiacciate.
La scelta del college di Williamson è stata una delle più seguite dai media nella storia del basket, ed ovviamente quale palcoscenico migliore di Duke? I Blue Devils cominciarono la loro esperienza mediatica con un tour estivo divenuto subito centro dell’attenzione di ogni appassionato di pallacanestro. Oltre a Zion Williamson la squadra poteva contare anche su Cam Reddish, dichiarato come uno dei dieci migliori prospetti al mondo prima della sua avventura collegiale e soprattutto su colui che si sarebbe conteso la prima scelta assoluta con Zion, RJ Barrett, fresco campione dei mondiali U18 con il suo Canada ed autore di un torneo a dir poco spaziale. I Blue Devils nonostante il dominio dimostrato non vinsero il campionato NCAA, ma Williamson fece registrare performances statistiche da record e vincendo premi individuali a valanga:
- 2018-19 ACC All-Defense
- 2018-19 ACC All-Freshman
- 2018-19 ACC Player of the Year
- 2018-19 ACC Rookie of the Year
- 2018-19 All-ACC – 1st Team
- 2018-19 AP Player of the Year
- 2018-19 Consensus All-America – 1st Team
- 2018-19 NABC Division I Player of the Year
- 2018-19 NABC Freshman of the Year
- 2018-19 Naismith Award
- 2018-19 Naismith Award Finalists
- 2018-19 Naismith Award Semifinalists
- 2018-19 Sporting News Player of the Year
- 2018-19 The Karl Malone Award
- 2018-19 USBWA Freshman of the Year
- 2018-19 USBWA Player of the Year
- 2018-19 USBWA Player of the Year Finalists
- 2018-19 Wooden Award
- 2018-19 Wooden Award – Finalists
- 2018-19 Wooden Award – Late Season
- 2018-19 Wooden Award – Midseason
- 2018-19 Wooden Award – National Ballot
- 2018-19 Wooden Award – Preseason
- 2019 ACC Tournament MVP
- 2019 All-ACC Tournament – 1st Team
- 2019 NCAA Tournament All-Region
Si classificò inoltre tra i primi 5 leaders nazionali in ognuna di quelle che gli americani definiscono “major statistical cathegories” esclusi i punti segnati. Fece registrare anche il terzo miglior risultato di ogni epoca in Win Shares per 48 mn. ed il record di tutti i tempi in PER (Player Efficiency Rating) e BPM (Box Plus Minus), record strappato ad un altro prospetto del quale andremo a parlare a breve, Anthony Davis.
Williamson sarà ovviamente scelto con la prima pick assoluta al Draft del 2019, inaspettatamente finita ai New Orleans Pelicans proprio di Anthony Davis, in rotta con la franchigia, che sarebbe stata pronta a ripartire da un super prospetto come Zion subito dopo aver ceduto un ex super prospetto come Davis ai Lakers.
In seguito il profilo di Zion Williamson secondo NBADraft.net, ed il racconto dell’hype per la notte del Draft scritto da Skysports.com e da The Ringer.
Anthony Davis
Probabilmente il miglior prospetto difensivo dell’era moderna, Anthony Davis fresco di vittoria del titolo NCAA con i suoi Kentucky Wildcats, nel 2012 fu anche convocato nella nazionale maggiore statunitense per i Giochi Olimpici di Londra senza aver giocato un singolo minuto nella lega. L’esperienza come tutti sanno si concluse con una medaglia d’oro mai in discussione per gli Americani, ed il 19enne dalle ciglia folte poteva già vantare un palmares abbastanza invidiabile. Le braccia lunghissime e la mobilità estrema rendevano Davis un cheat code difensivo, con enorme upside anche nell’altra metà campo dato un suo passato da playmaker poi abbandonato in seguito ad una crescita improvvisa. Davis fu selezionato con la prima scelta assoluta dai New Orleans Hornets nel Draft 2012, e di lui si parlava come il probabile big man più versatile di tutti i tempi, potenzialmente anche più di Kevin Garnett.
Il 22 giugno 2012 Bleacher Report scriveva a poche ore dal draft:
“Anthony Davis sta ricevendo più hype di ogni prospetto della classe draft NBA 2012 : non ci sono discussioni. Ma è possibile che Davis sia il giocatore più pubblicizzato della lottery-era?”
Josh Cohen, B/R, 2012Sempre su B/R, Josh Martin scriveva invece il 20 agosto 2012 un’analisi del profilo del futuro rookie, tentando di delineare anche un paragone, ma il nome ricorrente era sempre il medesimo: Kevin Garnett.
Possiamo dire con certezza che Anthony Davis abbia rispettato le enormi aspettative solo in parte, dimostrandosi limitato specialmente nella metà campo offensiva e non raggiungendo la cattiveria e l’intelligenza cestistica che il tanto inseguito (ed a detta di molti inseguibile viste le capacità del ragazzo) Kevin Garnett possedeva.
Alleghiamo anche per lui ciò che NBADraft.net scrisse ai tempi oltre ad una collezione di 29 stoppate nel torneo NCAA 2012, ancora oggi record.
Kareem Abdul-Jabbar
Indubbiamente il miglior prospetto di tutti i tempi, nonchè uno dei nomi più frequenti ai quali è stato avvicinato Victor Wembanyama. Kareem Abdul-Jabbar ha condotto UCLA a tre campionati nazionali in tre anni di college cementificando la sua legacy come miglior giocatore della storia del college basketball. Probabilmente il suo debutto in NBA è arrivato anche fin troppo tardi, visto e considerato che poteva già essere uno dei 3 o 5 giocatori migliori al mondo quando ancora indossava la casacca dell’Università della California. Ancora Lewis Ferdinand Alcindor Jr., il lunghissimo centro dei Bruins univa una fluidità ed eleganza fuori dal comune ad un’altezza di 7’2″ (218 cm). Sotto la leadership di Kareem il record di UCLA fu di 88 gare vinte e solo 2 perse mantenendo uno scarto medio di 25 punti tra loro e gli avversari nella span di 3 anni. Non c’è troppo da dire su Kareem, la sua carriera parla da sé, ed il fatto che la NCAA abbia proibito di schiacciare dal 1967 al 1976 pur di impedire ad Alcindor di dominare la dice lunga sulla discrepanza tra lui e qualsiasi prospetto nella storia. E forse a posteriori dobbiamo anche ringraziare la NCAA per quel veto, senza il quale probabilmente non avremmo mai potuto ammirare il gancio-cielo. Un prospetto del livello di Kareem realisticamente non si vedrà mai più, è impensabile ad oggi visto l’innalzamento del livello globale e lo studio approfondito di ogni situazione di gioco che un giocatore in uscita dal college possa candidarsi immediatamente al titolo di giocatore più dominante al mondo. Se però più la NBA diventa un fenomeno globale, più la capacità di vedere un semisconosciuto dominare diminuisce, al contrario la macchina dell’hype si alimenta a dismisura. Ed è doveroso chiudere con colui che è stato definito “The most highly hyped prospect ever”.
LeBron James
Su di lui se ne sono viste e sentite di ogni, dal contratto multimilionario rifiutato alla Reebok a soli 18 anni perchè la Nike avrebbe potuto offrirgli di più, alla stretta di mano con MJ senza esser passato mai neanche dal college, dall’aver segnato da solo più punti della squadra avversaria del Westchester alle partite di high school trasmesse in TV Nazionale, dalla gara delle schiacciate al McDonalds All-American all’All-Star Game dello stesso evento, entrambi dominati senza storia. C’è altro da aggiungere su Lebron? Forse si, qualche altro aneddoto che faccia comprendere la sua enorme popolarità sconosciuto ai più. Quando ancora il World Wide Web non era la macchina attuale ed i quantitativo di contenuti online era decisamente più ridotto, il 3 febbraio 2003, ESPN spendeva righe su righe per raccontare di come, per un equivoco in un negozio di divise, si fossero mobilitati avvocati e guardie del corpo personali del ragazzino per permettergli di scontare una gara di squalifica della stagione regolare scolastica in seguito all’accaduto.
Il momento più atteso fu la dichiarazione per il Draft NBA passando direttamente dall’high school al professionismo. Queste le parole del 18enne, che ancora una volta denotano una maturità e comprensione del mondo che lo circonda quasi diabolica:
“Quando vedi che non c’è modo di crescere in popolarità più di così…devi cogliere un’opportunità quando è di fronte a te ed è quello che mi ha fatto prendere questa decisione. Sono uno dei giocatori più pubblicizzati nel paese in questo momento e non ho nemmeno giocato una partita di basket nella NBA. So di essere un uomo segnato”
LeBron James, 25 aprile 2003Dicotomie e terzi incomodi
Dando però uno sguardo al mock draft di un anno precedente, datato 24 luglio 2002, possiamo notare come subito dietro l’insindacabile LBJ ci fosse un ragazzo di Brooklyn proveniente dalla scuola classificata al primo posto a livello statale, Oak Hill Academy. Quel ragazzo si chiama Carmelo Anthony e nel Febbraio del 2002 lui e LeBron si sono scontrati nella sfida scolastica più famosa di tutti i tempi. I due non delusero combinando per 70 punti in due e fu la squadra di Anthony a prevalere per 72-66, incrementando un record già notevolissimo a 25 vittorie ed una sola sconfitta. Il rematch si svolse qualche mese dopo, il 12 dicembre, e la n.1 Oak Hill, questa volta fu spazzata via dalla squadra di LeBron.
Questa sfida ricorda molto quella tra altri due prospetti incredibili: chiaramente stiamo parlando di Victor Wembanyama e Scoot Henderson, anche loro scontratisi nella gara del 5 ottobre 2022 tra Metropolitans 92 e Team G-League Ignite.
La NBA ha tenuto gli occhi puntati su questa sfida, ed in seguito ha esteso la possibilità di seguire tutte le gare dei Metropolitans 92 di Wemby nel campionato francese sull’app NBA e sul sito NBA.com. Come per James e Melo, si vocifera che un terzo incomodo possa frapporsi tra loro e le prime die scelte. Nel 2003 fu Darko Milicic a strappare la seconda scelta, dopo essersi annunciato eleggibile il 9 febbraio 2003. L’annuncio è stato reso pubblico da David Stern durante la settimana dell’All-Star Weekend.
La notte del Draft i Detroit Pistons, finalisti di Conference e con la seconda scelta assoluta decisero di puntare sull’ancora 17enne serbo, con l’idea di non voler troppo sbaragliare le carte e puntando sul fit più ottimale con la squadra.
“Darko Milicic non dovrà venire qui ed essere il salvatore. LeBron dovrà essere il salvatore a Cleveland, non c’è modo di evitarlo. Ci si aspetta che Carmelo porti un carico enorme. Spingeremo (Milicic) per essere il meglio che può essere. Ma non verrà giudicato se ci ha portato quest’anno. Pensiamo che sia una situazione eccellente per lui e per noi”
Joe Dumars, president of basketball operations dei Pistons nel 2003Ha senso scegliere in base al Fit?
Quest’anno la sensazione sembrerebbe essere la medesima, con un terzo incomodo a nome Brandon Miller a frapporsi fra il gigante francese e la combo guard di Team Ignite.
Quando ha realmente senso parlare di fit nel Draft? La carriera di Milicic è indubbiamente da cestinare, ma come deplorare i Pistons per la scelta fatta se a fine stagione hanno sollevato il Larry O’Bryan Trophy e la stagione successiva sono andati ad una gara 7 dal ripetersi (idem dicasi per il 2006 quando persero in 7 gare contro i futuri campioni NBA, gli Heat di Wade e Shaq)? Gli Hornets però non sono nelle stesse condizioni e non si ritrovano a scegliere per secondi con la consapevolezza di avere una corazzata alle spalle. Il rischio di passare un talento generazionale è veramente altissimo e potrebbero rimpiangerlo per anni, specie considerando che la star su cui puntano, LaMelo Ball, è ancora estremamente giovane e duttile ed ha caratteristiche che possono abbinarsi su due metà campo con quelle di Henderson in maniera non così pessima. Melo è un discreto tiratore in spot up e Scoot un ottimo finisher se innescato in movimento. Le skills da portatore di entrambi possono facilitare il reciproco sviluppo di un gioco senza palla, e quindi una maggior facilità nella creazione di buone occasioni nella metà campo offensiva. Se non per sperimentare a cosa serve la regular season di squadre con cores così giovani?
Tempo al tempo
Al tanking forsennato risponderanno alcuni, nell’attesa di essere baciati dalla fortuna e pescare al Draft un giocatore francese come potenzialmente non se ne sono mai visti.I giocatori NBA nel vederlo hanno espresso pareri discretamente positivi per dirla con un eufemismo: LeBron lo ha definito un alieno, Curry lo ha paragonato al giocatore con tutti i valori massimi di Nba 2K, mentre Lillard si è augurato di giocare meno partite possibili contro di lui.
Attenzione però a dare per scontato che un giocatore possa salvare una franchigia da solo, poiché le volte in cui è successo, come evidenziato con i sovracitati “talenti generazonali” si contano sulle dita di una mano.In seguito alcuni grafici presi da JxmyHighroller spiegano come un impatto dei Rookies immediato e tale da cambiare una franchigia sia un evento più unico che raro.

Tra le migliori stagioni da rookie degli ultimi 25 anni (per Value Over Replacement Player), quanti hanno fatto i Playoffs? 
Numero di vittorie aggiunte alla propria squadra nella rookie season 
Prime scelte dal 1998 ad aver vinto un Finals MVP 
Le win/shares di una prima scelta standard Victor Wembanyama sarà il più grande giocatore della storia del basket?
Victor Wembanyama non è un giocatore generazionale, è un prospetto generazionale, ma le aree dove migliorare sono ancora molte. Checchè ne dicano i suoi highlights, Wemby è un tiratore altalenante, ed il suo finishing al ferro creato da sé lo è altrettanto, data la sua forza fisica non ancora ottimale nell’assorbire i contatti. Probabilmente il suo impatto difensivo sarà già da subito molto positivo, ma comparendo meno negli highlights, molti saranno già pronti a bollarlo come delusione. Il pubblico sa infiammarsi con l’hype in davvero poco tempo, ma sa altrettanto velocemente bollare un neanche ventenne con sentenze lapidarie.
Il suo ceiling è forse il più alto che si sia mai visto, ma fidatevi, raggiungere il massimo delle proprie capacità, specie con una pressione mediatica del genere non solo non va dato per scontato, ma è addirittura raro.
Non resta che aspettare pazientemente lo scorrere degli eventi e fare il tifo affinché questo splendido unicorno possa diventare ciò che tutti noi speriamo.
Forza Wemby, e buon Draft 2023 a tutti.
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Golden State Warriors: perché questa discrepanza tra casa e trasferta?

𝐔𝐍𝐀 𝐒𝐓A𝐆𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐏𝐀𝐑𝐓𝐈𝐂𝐎𝐋𝐀𝐑𝐄
Giugno 2022: i Golden State Warriors si laureano campioni NBA, Stephen Curry riceve una (pleonastica) consacrazione, a detta di molti “definitiva”, la squadra è pronta per godersi le vacanze, e prepararsi al meglio alla stagione 2022-2023.
Almeno dal punto di vista dei tifosi ci si aspetta una regular season tranquilla con playoff assicurati, ma la stagione appena trascorsa è stata tutto fuorché questo.
I problemi iniziano subito a Settembre a stagione ferma; mentre noi tifosi ci godiamo il sole in riva al mare diventa vitale la notizia riguardante il pugno rifilato da Draymond Green a Jordan Poole. Di lì a poco uscirà via TMZ anche il video, e le domande inizieranno a farsi insistenti sul cosa ne sarebbe stato di Green… scambio? Sospensione? O tacito risentimento e volontaria sparizione dalle scene a tempo inteterminato?
In questo clima molto poco disteso inizia la Regular season, e Golden State gioca il suo solito basket tra le mura amiche del Chase Center, ma le sconfitte in trasferta iniziano ad arrivare copiose. Gli Warriors per diversi mesi avranno un record sempre orbitante in zona 50%, giocando un basket fatto di “palla lunga e tanta corsa”.
Verso metà stagione iniziano ad esserci i primi infortuni figli di questo basket ad alto dispendio energetico, prima di Green e poi di Curry (nella settimana Pre-All star game). Quando anche Steph rientra ecco il carico da Novanta: Andrew Wiggins sparisce ad inizio febbraio, nessun infortunio, nessun comunicato, sappiamo solo che l’ala dei Warriors ha lasciato San Francisco.
Alla trade Deadline gli Warriors viaggiano ad un record neutro/negativo, a seconda del quantitativo di trasferte consecutive ad est, che molto spesso si tramutano tutte in sconfitte. La speranza allora è da ricercarsi nell’usato sicuro, con un acquisto riparatore in emergenza: Gary Payton II lascia Portland e torna a casa dove è accolto dall’amore dei tifosi non ancora affievolito. Ma anche un ritorno cosi gradito nasconde le sue insidie, ovvero che i Trail Blazers avrebbero fatto giocare da inizio stagione Payton II imbottito di Toradol nascondendo un infortunio all’addome all’intera lega.
Gli Warriors si trovano ad un bivio ma alla fine scelgono comunque di acquisirlo (una ricaduta vorrebbe dire 3 mesi fuori), realizzando che il figlio d’arte infortunato ed imbottito di farmaci fosse comunque meglio difensivamente sia di Curry che di Poole.
Una folata finale di regular season fatta di calendario favorevole e motivazione superiore a molte delle squadre affrontate, spesso già qualificate, ma anche ad una buona dose di strategia atta ad evitare i Phoenix Suns al primo turno, porta i Warriors ad evitare il play in ed a qualificarsi come sesti contro la cenerentola della stagione, i Sacramento Kings, avversario probabilmente più abbordabile dell’intera porzione occidentale di tabellone.
Tirando le somme realizziamo come la squadra di San Francisco abbia un record pietoso fuori casa (10-30) mentre nelle mura del Chase Center un rapporto da top team (34-8).
Quello che si chiedono tutti è perché? Cosa è successo?
Proviamo a spiegarlo con tre motivazioni:- Rilassamento post titolo
Come detto, a giugno la squadra si è laureata campione. In molti casi questo vuol dire che nella stagione seguente qualsiasi squadra entra in campo convinta che bastino due minuti per vincere molte delle partite di una regular season a tratti somigliante più ad un allenamento che ad una seria competizione. Quello che però non è stato ingenuamente calcolato è che durante una gara, una volta che l’avversario entra in fiducia, è difficile sovvertire questa tendenza di modo da risolvere la gara con il minimo sforzo ed il massimo risultato.
Un’altra conseguenza a questo fenomeno è che spesso si pensa che per raddrizzare la stagione bastino due mesi, con una run da 5-10 vittorie consecutive che proietti o immediatamente in una comfort zone da playoffs dalla quale poi non uscire fino alla fine della stagione regolare.
Mescolando queste due motivazioni si ottiene un pericoloso gioco d’azzardo che spesso lascia a bocca asciutta, non essendo più capace di gestire il tuo destino con le tue sole forze, e dovendo scommettere anche sui fattori esterni (la trade Irving-Dallas ne è un esempio, lasciando un posto in più per i playoff hanno facilitato la conquista della post season per i Dubs).
Ad inizio stagione dopo le prime 20 partite la squadra in casa aveva un record di 9-1 mentre fuori 1-9, sintomo che provava il totale disimpegno da parte della squadra di giocare con un’attitudine adeguata lontano dalla California. - Gestione dei rapporti ed overthinking
In seguito al disguido Poole-Green, i rapporti interni allo spogliatoio sembravano molto tesi, e per impedire che ci fossero ricadute interne alle gare dovute alla tensione che un gruppo estremamente comunicativo come i Warriors ha da sempre, Apparentemente Steve Kerr ha chiesto alla squadra di alzare il ritmo di gioco per non far mandare la squadra in overthinking.
Vediamo infatti come in una banale rimessa dal fondo, Curry o chiunque rimetta la palla in gioco cerchi insistentemente l’uomo in angolo nell’altra metà campo per un tiro veloce, oppure massimo tre passaggi per un tiro spesso difficile, rapida conclusione di azioni lunghe massimo 4/5 secondi. - Infortuni ed inadeguatezza di alcuni giocatori
Gli Infortuni di Green e Curry e la dipartita di Wiggins non hanno facilitato la corsa playoff della squadra: prima il “Vocalist” difensivo è mancato e poi la permanenza di Wiseman più a lungo del dovuto ha inesorabilmente condannato la squadra a qualche sconfitta fuori programma.
Wiseman è stato di fatta una scommessa tragicamente persa, un lungo di 2.16 che in stagione regolare ha concesso agli avversari il 67.7% al ferro quando marcati di lui, su oltre 11 tentativi contestati a partita (più della metà del totale dei tiri difesi arriva difatti entro i 5 piedi dal ferro). In attacco si è dimostrato inadeguato a qualsiasi situazione in cui doveva agire da bloccante (che fosse un pick and roll o un set di squadra in cui portare blocchi ciechi o stagger per i tiratori che si muovevano per ricevere senza palla).
L’infortunio di Curry è sembrata la problematica meno influente almeno in termini di record, ma probabilmente un’assenza prolungata avrebbe potuto portare a risultati in continuo peggioramento.
La dipartita di Wiggins (dovuta a problemi familiari che la NBA ha tenuto ufficialmente nascosti) ha tolto alla squadra un all around player troppo importante, capace di dare alla squadra scoring in isolamento all’occorrenza, tagli forti a canestro, difesa sulla palla e grande capacità di evitare i cambi difensivi grazie alla sua eccellente screen navigation.
Tattica e statistiche
Quanto è strana numericamente la stagione Dubs
N.B. Le statistiche fanno riferimento alla stagione regolare fino al 2 Aprile 2023
Dopo aver raccontato a parole le follie della squadra più famosa in California guardiamo un po’ di numeri:
Defensive Rating
Il Dif Rtg della squadra totale è 113.8 (17esimi)
In Casa: 107.9 (terzi), in Trasferta 119.8 (28esimi)
Un fortino a S. Francisco; guardando qualche partita si nota subito la maggiore comunicazione e concentrazione, quello che serve in pratica per difendere di squadra in maniera coordinata.
Fuori casa l’esatto opposto, disattenzioni e scarsa comunicazione, praticamente due squadre diverse.
Percentuale di tiri da tre segnati dagli avversari:
In Casa la squadra concede il 29.5% da 3 mentre in trasferta il 45.1%!!
Questa discrepanza del 16.1% la ritroviamo facilmente nella disposizione difensiva della squadra: in casa Golden state utilizza Draymond Green sul lato debole pronto ad aiutare sul pick and Roll e nei CloseOut (con la sua rapidità e le sue lunghe braccia riesce molto bene a sporcare la visuale del tiratore in angolo).Fuori casa invece la squadra schierava DiVincenzo o Curry sul lato debole e questa piccola differenza portava troppi tiri Wide Open al tiratore in angolo.
Motivazioni? Probabilmente una banale mancanza di impegno, dovuta alla consapevolezza che i Playoffs sarebbero comunque arrivati anche giocando al massimo solo davanti al proprio pubblico che spinge.
Amnesie difensive ed Effort collettivo:
Le statistiche di tiri presi dagli avversari nella Restricted Area lasciano poche interpretazioni
-In Casa: 14.24, In Trasferta 25.84 Diff -11.6
Oltre alla differente disposizione difensiva aggiungiamo pure scarsa comunicazione e concentrazione: spesso quando il giocatore sul lato debole decide di coprire preventivamente il tiratore in angolo si crea un buco enorme dentro area, il rollante ormai lasciato solo può solo che ringraziare depositando due punti comodi.Vero, due indizi non fanno una prova, ma se gli indizi cominciano a diventare un campione così consistente da essere a tutti gli effetti un trend, qualcosina su cui preoccuparsi c’è.
Chiaramente si spera che questi problemi vengano risolti ai Playoff, e se veramente di concentrazione si tratta, non dovrebbe essere difficile, con la squadra che si renderà nuovamente protagonista puntando come obiettivo minimo alle finali di Conference, anche se il sogno di repeat non è ancora da abbandonare.
C’è solo da mettersi seduti e godersi lo spettacolo. - Rilassamento post titolo
-
Philadelphia 76Ers: now or never?

Come negli ultimi anni i Sixers saranno tra i protagonisti principali della Post-Season e in questo articolo andremo ad analizzare, tramite una vera e propria analisi SWOT, come arriva la squadra della città dell’amore fraterno a questi Playoff e quali sono gli aspetti da tenere in maggiore considerazione per provare ad arrivare fino in fondo. Sarà una situazione da ora o mai più per Philadelphia? Cercheremo di dare una risposta nei prossimi paragrafi.
N.B. Tutti i dati e le clip utilizzati in questo articolo sono stati presi da NBA.com.
PUNTI DI FORZA (STRENGTHS)
I Philadelphia 76ers hanno concluso questa stagione con il terzo miglior record della Eastern Conference, dietro a Celtics e Bucks, e si apprestano ad affrontare i Brooklyn Nets al primo turno.
Di seguito andremo ad analizzare quali sono i punti di forza di questa squadra e cercheremo di capire se potranno bastare per poter provare a raggiungere almeno le finali di Conference.
Joel Embiid
Il primo punto di forza dei Sixers ha indubbiamente un nome e un cognome: Joel Embiid. A prescindere che vinca o meno l’MVP, il camerunense, è indubbiamente la chiave per i successi dei 76ers e tutto gira intorno a lui. Negli ultimi anni, purtroppo, non abbiamo, praticamente, mai avuto l’occasione di vederlo giocare un’intera run di Playoff da sano, però al momento sta bene ed è in forma e questa è la notizia migliore, ma andiamo a vedere il perchè Embiid è il punto cardine di questa squadra.
L’ex Jayhawks quest’anno ha concluso la stagione a 33.1 punti, 10.2 rimbalzi, 4.2 assist, 1.0 palle rubate, 1.7 stoppate e 3.4 palle perse a partita tirando con il 54,8% dal campo su 20.1 tentativi, il 33,0% da 3 su 3.0 tentativi e l’85,7% dalla linea della carità su 11.7 tentativi a partita, tutto questo in 66 partite disputate sulle 82 giocate dalla squadra.
Guardando le partite è sempre più evidente come sia, praticamente, immarcabile in post e nelle situazioni in cui riceve il pallone con un vantaggio sull’avversario. Ormai è diventato sempre più efficace nel preventivare il raddoppio ricevendo in maniera dinamica e il Pick&Roll con Harden sta diventando un’arma quasi infallibile. Infatti, Joel, sia che rolli deciso a canestro, sia che decida di poppare o di fare uno short roll è estremamente efficace e soprattutto dal midrange ha trovato una dimensione impressionante (47,1% dal campo dallo short midrange).
La sua efficienza offensiva è impressionante, come mostrato dai seguenti numeri:
Il camerunense gioca la bellezza di 6.7 possessi a partita (primo nella lega) come rollante in un Pick&Roll segnando 1.23 punti per possesso, con un EFG% del 61.0%, inoltre ne gioca 6.6 a partita in isolamento piazzando 1.07 punti per possesso con un EFG% del 50,9% e infine ne gioca 4.5 a partita in post up mettendo a segno 1.23 punti per possesso con un EFG% del 53,8%. Tutto ciò considerando che è secondo nella lega per tiri liberi conquistati a partita (11.7) e che li converte con l’85,7%. Questo porta la sua percentuale reale di tiro ad un notevolissimo 65,5%, ovvero 7.4 punti in più della media della lega, e considerando il volume di tiri che prende, non è difficile definirlo il miglior scorer in circolazione.
Indubbiamente, a volte, perde ancora qualche pallone di troppo e non è sempre perfetto nel trovare il compagno una volta che viene raddoppiato o triplicato, ma negli anni è cresciuto molto nelle letture e non è raro vederlo trovare l’assist vincente in quelle situazioni, o comunque trovare il passaggio per un tiro aperto e questo sarà molto importante in chiave Playoff, perchè chiaramente la difesa avversaria sarà estremamente concentrata su di lui e se riuscirà a trovare le letture giuste e i compagni riusciranno a convertire le occasioni create, sarà molto complicato vincere contro questi Sixers, come successo nell’ultimo scontro con i Celtics, dove Tucker ha piazzato tre triple consecutive nel finale, proprio grazie allo spazio che si è creato per la difesa contro il camerunense.
L’obiettivo, quindi, di Doc Rivers deve essere quello di cercare di creare dei set per poterlo sfruttare al meglio (come si è visto spesso in Regular Season) e i compagni dovranno essere all’altezza e dovranno essere efficaci quando si liberano gli spazi grazie alla sua gravity, soprattutto, on ball.
James Harden e il Dynamic duo con Embiid
Passiamo ora ad un altro punto di forza dei Sixers, ovvero James Harden e il dynamic duo composto da lui e Joel Embiid.
Harden, dopo essere arrivato nella “città dell’amore fraterno” alla deadline del 2022, non aveva iniziato al meglio la propria avventura con la nuova casacca. Infatti, dopo una discreta parte finale di stagione, ai Playoff è stato quasi dannoso e fisicamente sembrava molto lontano dal giocatore che si era visto a Houston e in parte anche a Brooklyn. Non era raro vederlo, per l’appunto, iniziare bene le partite, per poi spegnersi completamente nei secondi tempi, risultando spesso tra i peggiori nelle sconfitte subite.
La speranza, a inizio anno, era quella di vederlo recuperare fisicamente e che riuscisse ad adattarsi ad una nuova situazione di gioco, visto che in carriera non si era mai trovato a giocare al fianco di un lungo dominante come Joel.
Sicuramente ha avuto diversi problemi fisici durante la stagione, infatti ha giocato solo 58 partite su 82 e ancora oggi lamenta un problema al tendine d’achille, però i risultati del lavoro estivo sono stati evidenti e Harden ha giocato un’ottima stagione.
Infatti, non era necessario rivedere il giocatore di Houston, ma quello che serviva era vedere un Harden in versione facilitatore, che riuscisse ad amalgamarsi ottimamente con il camerunense e che, qualora servisse, fosse riuscito ad essere efficace anche in fase di scoring, soprattutto nei momenti in cui Embiid non fosse stato in campo assieme a lui.
L’ex Arizona State ha rispettato queste aspettative e infatti, oltre ad essere il leader per assist di media nella lega (10.7), ha stabilito una grande coesione con Embiid, tant’è che il Pick&Roll tra i due è diventato un’arma devastante (come abbiamo visto dai dati su Embiid come rollante) e inoltre l’ex OKC sta vivendo anche una stagione molto efficiente a livello offensivo. Chiaramente non gira più sopra i 30 punti di media che aveva a Houston, però quest’anno gioca, comunque, 6.2 possessi in isolamento a partita (quarto nella lega) e segna 1.10 punti per possesso con un EFG% del 49,1% che lo colloca nell’84.2 percentile della lega in questa particolare statistica, inoltre quest’anno sta tirando con una delle migliori percentuali da 3 in carriera, infatti è dai tempi di OKC che non ha una percentuale così alta. Per l’appunto, Harden sta tirando con il 38,5% su 7.2 tentativi a partita e sta facendo registrare una TS% del 60,7%.
Ai Playoff sarà determinante continuare a vedere le due star giocare in questo modo e continuare a trovarsi come hanno fatto durante tutta la Regular Season, ma sarebbe interessante anche vedere più minuti con solo uno dei due in campo, visto che l’ex Rockets ha dimostrato, che nei minuti senza Embiid può essere tranquillamente la prima stella della squadra. Infatti con il camerunense off court, Harden gira a 25.3 punti, 6.5 rimbalzi, 9.6 assist tirando con il 42,2% dal campo su 18.5 tentativi, con il 40,5% da 3 su 8.4 tentativi e con l’86.1% dai liberi con 7.2 tentativi di media a partita (statistiche per 36 minuti).
Rivers preferisce farli giocare il più possibile assieme ed ovviamente è comprensibile, soprattutto nei momenti chiave del match, però se per la durata dei 48 minuti almeno uno dei due sia sempre in campo, i Sixers potrebbero indubbiamente giovarne, soprattutto se entrambi vengono affiancati dagli uomini giusti.La rinascita di Tyrese Maxey
Un altro punto di forza dei Philadelphia 76ers può essere trovato nella grandissima efficienza che sta avendo Tyrese Maxey da quando è rientrato in pianta stabile in quintetto. L’ex Kentucky, infatti, da quando è rientrato nello starting five (ovvero nella partita contro i Miami Heat del 28 febbraio) sta registrando le seguenti medie: 22.1 punti, 3.3 rimbalzi, 3.5 assist, 1.2 palle perse, 0.8 palle recuperate, 0.2 stoppate, tirando con il 54,7% dal campo su 14.5 tentativi, il 52,3% da 3 su 6.7 tentativi e il 94,4% dai liberi su 2.8 tentativi a partita, con una TS% del 70,1%.
Molto probabilmente saranno numeri insostenibili ai Playoff, ma la sua ritrovata verve può dare una grande mano ai Sixers, soprattutto quando le due stelle sono a rifiatare in panchina e lui ha la possibilità di giocare con la second unit, magari contro le panchine avversarie. Chiaramente è in queste situazioni che dà il meglio di sè, visto che predilige molto giocare con la palla in mano e provare a crearsi il tiro da solo, però anche in situazioni off ball sta riuscendo ad essere efficace, facendosi trovare pronto, infatti su 4.8 possessi a partita giocati in spot up segna 1.20 punti per possesso con un EFG% del 60,6%.
L’ottima efficienza offensiva di squadra
Dopo aver analizzato tre punti di forza riguardanti i singoli giocatori, passiamo ad analizzarne uno di squadra che si ricollega perfettamente a quanto detto finora, visto che riguarda l’efficienza offensiva dei 76ers vista durante questa Regular Season.
La squadra allenata da Doc Rivers, infatti è sempre nella top 10 della lega nelle statistiche di efficienza offensiva. I Sixers, infatti, tirano con il 48,7% dal campo (sesti nella lega) su 83.8 tentativi a partita, il 38,7% da 3 (primi nella lega) su 32.6 tentativi a partita e con l’83,5% dai liberi (primi nella lega) su 25.1 tentativi di media, inoltre hanno il terzo Offensive Rating della lega con 117.0 e in più hanno fatto registrare una TS% del 60,8% (secondi nella lega).
Chiaramente questi numeri derivano dalla grande efficienza offensiva mostrata dalle tre stelle, come abbiamo potuto vedere precedentemente, ma oltre a loro la squadra è formata da diversi giocatori efficienti, come Tobias Harris che è andato vicino ad entrare nel club del 50/40/90 tirando con il 50,1% dal campo, il 38,9% da 3 e l’87,6% dai liberi, o anche De’Anthony Melton che tira con un ottimo 39,0% da 3 su 5.2 tentativi a partita e anche le stesso Niang che tira con oltre il 40% da 3 su 4.9 tentativi di media.
Questa squadra, nonostante un Pace basso, ha dimostrato di essere molto efficiente offensivamente e ha diverse armi per colpire gli avversari, come abbiamo potuto vedere precedentemente. L’obiettivo ai Playoff, quindi, sarà quello di cercare di confermare questi numeri e di provare a mettere in difficoltà gli avversari che incontreranno sfruttando le stelle presenti a roster e la loro grande efficienza.
PUNTI DI DEBOLEZZA (WEAKNESSES)
Dopo aver analizzato i pregi di questa squadra è arrivato il momento di analizzare i difetti.
I dubbi sulla fase difensiva
I Sixers hanno l’ottavo miglior Defensive Rating della lega, pertanto guardando questo dato la fase difensiva non dovrebbe essere considerata come un problema ed effettivamente Philadelphia ha trovato un buon equilibrio in quella metà campo e a roster sono presenti ottimi difensori, come per esempio De’Anthony Melton o Jalen McDaniels. Detto ciò, però, nella fase difensiva dei 76ers si nascondono delle insidie che ai Playoff potrebbero mettere in difficoltà la squadra allenata da Doc Rivers, soprattutto dal secondo turno in poi.
Il primo dubbio riguarda principalmente il backcourt. A inizio stagione era evidente come Harden e Maxey fossero insostenibili se schierati assieme per troppi minuti e infatti la Regular Season dei Sixers era iniziata molto a rilento. Rivers poi ha preferito schierare in quintetto Melton, facendogli chiudere anche spesso le partite e in quel frangente Phila ha raggiunto i vertici della lega per Defensive Rating e le squadre avversarie facevano molta fatica a trovare delle contromisure efficienti, tant’è che oltre che migliorare nettamente nella metà campo difensiva, la squadra iniziò ad ingranare e si stabilì definitivamente nella top 3 della Eastern Conference. Dal 28 febbraio, però, Tyrese Maxey è tornato in pianta stabile in quintetto e soprattutto a giocare diversi minuti in campo con Harden e da quel momento i Sixers hanno avuto il diciottesimo Defensive Rating della lega (116.3) e hanno concesso una percentuale dal campo del 48,2% agli avversari.
Ovviamente non è solo colpa dell’ex Wildcats, però anche guardando le partite si può notare facilmente come le squadre avversarie spesso includano lui e Harden nei Pick&Roll e che cerchino di effettuare un po’ di mismatch hunting viste le scarse abilità difensive dei due, inoltre Joel Embiid ha perso molta mobilità ed efficacia difensiva rispetto agli scorsi anni e nella maggior parte dei casi costringe i Sixers a difendere in drop e questo, contro squadre molto abili dal pull up, non avendo degli esterni in grado di spingere l’handler avversario verso Embiid, può provocare diversi problemi e ai Playoff queste debolezze vengono fatte pagare maggiormente, soprattutto considerando che solitamente il drop funziona molto di più in Regular Season, che ai Playoff.
Ovviamente Melton può essere molto utile nel risolvere parzialmente il problema, ma sicuramente Harden e Maxey giocheranno ancora più minuti in Post-Season ed Embiid, nonostante ci si possa aspettare più concentrazione in questa fase della stagione, anche nella propria metà campo, come già detto precedentemente, ha perso molto a livello difensivo e nonostante rimanga un ottimo deterrente al ferro, dovrà cercare di accettare qualche switch in più e di effettuare anche qualche show in più perchè, per esempio, contro i Boston Celtics, la difesa in drop, con quel backcourt in campo, potrebbe mettere in seria difficoltà Philadelphia.
Fisicità e atletismo
Un’altra problematica che potrà mettere in difficoltà la squadra della “città dell’amore fraterno” è indubbiamente quella riguardante la fisicità e l’atletismo.
I Sixers, infatti, da tutta la stagione soffrono enormemente a rimbalzo e non è raro vedere le squadre avversarie costruirsi seconde occasioni sfruttando, proprio, questa problematica. I 76ers occupano il ventesimo posto nella lega per REB% (49,6%), inoltre sono al quattordicesimo posto per DEFREB% (72,0%) e al ventiseiesimo per OFFREB% (25,6%). Questo problema ai Playoff potrebbe risultare molto dannoso, visto che Philadelphia potrà incontrare, se andrà avanti, due squadre come Celtics e Bucks, che sono entrambe in top 10 per REB% e il rischio può essere quello di concedere troppe seconde occasioni pericolose in momenti cruciali dei vari match e inoltre il problema fisico ed atletico si può ripercuotere in alcuni mismatch difensivi.
Per esempio, infatti, avere un giocatore come Maxey può creare dei problemi considerando le guardie di Celtics e Bucks (Holiday e Smart per esempio) e anche contenere giocatori come Brown e Tatum o Giannis stesso può essere molto complicato per i Sixers che dovranno fare in modo, attraverso un sistema di switch e di aiuti, di limitare il più possibile questa problematica.
La panchina
Un altro punto di debolezza di questa squadra può essere rappresentato dalla panchina. E’ vero che ai Playoff i quintetti e le star la fanno da padroni, ma avere gli uomini giusti che escono dalla panchina può fare un’enorme differenza. I Sixers, a parte Melton, in ottica Post-Season rischiano di avere pochi uomini utili e in grado di fare la differenza in positivo.
Reed sicuramente sarà il backup di Embiid, ma la sua ridotta capacità offensiva e il fatto di essere sottodimensionato (nonostante sia un ottimo difensore) può fare prendere diversi parziali ai 76ers durante i minuti in cui Joel non sarà in campo.
Niang, nonostante sia un gran tiratore e un giocatore che se è in serata può farti vincere una partita, rischia di essere un fattore troppo negativo in difesa e la squadra potrebbe pagare troppo la sua presenza in campo.
McDaniels può essere molto utile in fase difensiva e in attacco è certamente un upgrade rispetto a Thybulle, detto ciò anche lui rischia di diventare poco sostenibile se in attacco non riesce ad essere minimamente pericoloso.
Infine Milton è un giocatore molto scostante, nonostante abbia disputato una discreta stagione, e a parte in qualche momento per far rifiatare i titolari, difficilmente vedrà il campo.
Il rischio, quindi, è di avere nei momenti decisivi una rotazione molto corta, che possa far spremere troppo le stelle e che al contempo possa creare dei problemi quando i titolari non saranno in campo, pertanto gli uomini in uscita dalla panchina, dovranno essere bravi a tener botta e a far rifiatare il necessario gli starters, per poi averli al top nei momenti che contano maggiormente.
PJ Tucker
Un altro dubbio riguarda, infine, PJ Tucker. L’ex Heat è stato preso per aggiungere un po’ di “toughness” a questa squadra e per essere utilizzato nei mismatch difensivi più scomodi, soprattutto in Post-Season. Tucker ha, però, giocato una stagione piena di alti bassi e in questi Playoff i bassi potrebbero essere molto problematici.
Difensivamente sembra aver perso un passo e a volte ha anche commesso errori banali, mentre offensivamente spesso è stato troppo riluttante nel prendersi qualche tiro. Ovviamente non gli viene chiesto di prendersi 7/8 triple a partita, però quando è libero non dovrebbe aver paura di prendersi delle responsabilità, soprattutto dagli angoli.
Ha giocato anche delle ottime partite, come per esempio nella prima sfida contro i Nuggets dove limitò benissimo Jokic nel secondo tempo, però i dubbi rimangono e un elemento chiave della squadra come lui, se non dovesse garantire un apporto importante per quel che gli viene richiesto, potrà mettere seriamente in difficoltà i 76ers.
OPPORTUNITA’ (OPPORTUNITIES)
Dopo aver analizzato in maniera approfondita i pregi e i difetti di questa squadra è arrivato il momento di andare a vedere quali possono essere le opportunità che i Sixers potranno sfruttare per provare ad arrivare fino in fondo.
Finalmente tutti a disposizione!
Indubbiamente la prima opportunità da sfruttare (per quanto sembri banale) riguarda il fatto che la squadra arriva a questi Playoff senza infortuni e con tutti i protagonisti principali in forma. L’unico che arriva con un problema è James Harden, che come detto precedentemente sta avendo ancora qualche fastidio al tendine d’achille, però in questa parte finale di Regular Season ha avuto la possibilità di rifiatare e di riposarsi, per poter arrivare al massimo della forma all’inizio della Post-Season.
Quello che conta, però, è che Joel Embiid sia sano e al 100%, perchè, come mostrato in precedenza, la maggior parte dei successi della squadra passa proprio dal camerunense e al momento non sembra avere particolari problemi fisici.
Negli ultimi anni non ha mai potuto giocare un’intera run Playoff senza problemi e questo ha limitato moltissimo le possibilità di successo dei 76ers.
Quest’anno, se dovesse mantenere questo livello di forma, indubbiamente le possibilità crescerebbero e potrebbe essere un’opportunità unica da sfruttare, in quanto sappiamo bene, che purtroppo il nativo di Yaoundè non darà mai garanzie da questo punto di vista, soprattutto col passare dell’età.
Oltre a lui anche Tyrese Maxey e gli altri protagonisti principali della squadra arrivano a questi Playoff senza problematiche fisiche e col passare delle partite, se questa condizione viene mantenuta, la squadra potrebbe beneficiarne enormemente, soprattutto se le altre squadre dovessero subire qualche perdita.
Un primo turno tranquillo
Un’altra opportunità da sfruttare potrebbe riguardare gli intrecci che si vedranno al primo turno. Infatti i 76ers affronteranno i Brooklyn Nets, mentre i Boston Celtics si scontreranno molto probabilmente contro i Miami Heat di Jimmy Butler.
Questo potrebbe fare una grande differenza in ottica secondo round in quanto i Sixers potrebbero liberarsi dei Nets abbastanza agevolmente (è lecito aspettarsi un 4-0 o massimo un 4-1), mentre i Celtics dovranno (sulla carta) affrontare una squadra sempre ostica, come quella allenata da coach Spoelstra.
All’inizio dell’anno, se avessero detto a Rivers e a Morey che al primo turno avrebbero incontrato i Nets, molto probabilmente sarebbero andati in panic mode, vista la presenza di Durant e Irving e la potenziale pericolosità dei bianco neri, mentre ad oggi, probabilmente, è il miglior turno possibile che poteva capitare ai Sixers. Infatti, per quanto possano essere una squadra divertente da vedere, con dei giocatori potenzialmente pericolosi, come Mikal Bridges (enorme rimpianto dei 76ers), indubbiamente Brooklyn non possiede lo star power necessario per mettere in difficoltà Philadelphia. Nelle 27 partite disputate da dopo la deadline i Nets hanno un record di 13 vittorie e 14 sconfitte e se sono riusciti ad arrivare al sesto posto, lo devono, soprattutto, al lavoro fatto precedentemente da Durant & co e dal fatto che quest’anno gli Heat siano stati molto incostanti.
Detto ciò, la squadra allenata da Doc Rivers dovrà essere brava a non sottovalutare l’avversario e a chiudere la pratica il prima possibile, in modo tale da arrivare alle semifinali di Conference, nella miglior condizione possibile.
I Celtics, invece, rischiano di fare molta fatica al primo turno. Come già detto, gli Heat hanno vissuto una stagione deludente e molto probabilmente non avranno la capacità di eliminare gli scorsi finalisti NBA, però è indubbio che la squadra guidata da Jimmy Butler, se è in serata, può battere chiunque e inoltre sappiamo bene come ai Playoff, lo stesso Butler, ma anche Adebayo ed Herro sono giocatori che si esaltano e Spoelstra stesso è un coach che può mettere in difficoltà chiunque. L’aspettativa e anche la speranza, dunque, è quella di vedere un primo turno molto combattuto, dove magari Boston dovrà arrivare addirittura a Gara 6 o anche a Gara 7 per poterla spuntare, e affrontare una squadra che ha avuto un primo turno difficoltoso, potrebbe essere un’opportunità da sfruttare per Embiid & Co.
MINACCE (THREATS)
Le minacce principali, oltre che ovviamente non riuscire a sfruttare i propri punti di forza e a far uscire in maniera più netta i rispettivi punti di debolezza, sono rappresentate dagli avversari che molto probabilmente i Sixers dovranno incontrare sul proprio cammino verso le eventuali Finals.
Boston e Milwaukee
Abbiamo già discusso del fatto che il primo turno sarà potenzialmente tranquillo e che Phila dovrà fare tutto il necessario per chiudere la pratica nel minor tempo possibile, però, come già detto, molto probabilmente alle semifinali di Conference, gli avversari da affrontare saranno i Boston Celtics e alle eventuali finali di Conference, quasi sicuramente la squadra sarebbe costretta a scontrarsi contro i Bucks.
Contro entrambe le squadre i 76ers non hanno ottenuto un record positivo durante la stagione, tant’è che contro i Celtics il record è di 1 vittoria (ottenuta con un margine di solo 2 punti) e di 3 sconfitte, mentre contro i Bucks la serie è stata pareggiata sul 2-2.
Tra le due squadre, quella in grado di mettere i Sixers più in difficoltà sono i Celtics. Infatti, oltre che per una questione di rivalità storica che accende ancora di più la sfida e che ultimamente ha sempre visto uscire vittoriosa la squadra di Boston, l’accoppiamento generale in campo è tra i peggiori. Boston, infatti, dispone di diversi giocatori in grado di colpire dal pull up col jumper, pertanto i limiti difensivi di cui abbiamo discusso nei punti deboli possono essere attaccati molto facilmente dalla squadra allenata da Mazzulla e inoltre difensivamente sono tra le poche squadre nella lega che possono limitare molto bene le principali bocche da fuoco dei 76ers.
Contro Embiid non hanno moltissime armi, anche perchè Horford ha perso qualcosa e il resto della squadra è sottodimensionata per limitarlo nel migliore dei modi, però il rischio è quello di vedere una serie dove Boston potrà accontentarsi di lasciare qualcosa in più ad Embiid, ma di bloccare i rifornimenti verso gli altri compagni e il risultato potrebbe essere molto negativo per Philadelphia. Una cosa simile, infatti, l’abbiamo potuta vedere nell’ultimo scontro tra le due squadre, dove Embiid ha dominato piazzando 52 punti, ma il resto della squadra ha fatto molta fatica e nonostante diversi vantaggi i Celtics hanno rischiato di vincere anche quella partita.
Contro Milwaukee, molto probabilmente, la squadra si accoppia meglio, però la fisicità e la profondità dei Bucks potrebbe fare la differenza e ci vorrebbe una serie importante da parte di PJ Tucker su Giannis e ovviamente quest’ultimo fattore non è scontato, però prima di arrivare eventualmente ad affrontare i Bucks, la squadra dovrà battere i Nets e per l’appunto i Celtics e il rischio di non raggiungere nemmeno quest’anno le finali di Conference è molto elevato.
Doc Rivers
Un’altra minaccia da tenere in considerazione, infine, riguarda Doc Rivers. L’ex coach dei Clippers, da quando è arrivato sulla panchina dei Sixers si è sempre comportato bene durante le Regular Season, conquistando sempre, almeno il fattore campo al primo turno dei Playoff. Il problema è che storicamente, e anche a Philadelphia, ha sempre dimostrato di avere molte pecche quando le partite iniziano a contare veramente e come già successo negli scorsi anni, il rischio di rivedere gli stessi errori è molto alto.
La sua limitata capacità di leggere le partite, le sue rotazioni, a volte incomprensibili e le sue strategie, spesso sono state la causa principale delle sconfitte delle sue squadre e contro degli avversari, come potranno essere Celtics e Bucks, allenati in ottima maniera, potranno fare la differenza in negativo per Philadelphia, pertanto la speranza è che quest’anno sia arrivato alla Post-Season con le idee chiare e che riesca a preparare le serie che la squadra affronterà nella maniera corretta.
CONCLUSIONI
In conclusione possiamo affermare che i Philadelphia 76ers hanno le carte in regola per provare ad arrivare fino in fondo, ma gli ostacoli da superare non saranno banali e il rischio di incorrere in un altro fallimento è molto alto.
L’obiettivo minimo rimane il raggiungimento delle finali di Conference, però questa potrebbe essere un’annata spartiacque per la squadra di Doc Rivers. Infatti James Harden ha una Player Option per il prossimo anno e molte voci affermano che la sua volontà è quella di tornare a Houston, inoltre con un eventuale altro fallimento la posizione di Doc Rivers sarebbe sicuramente da valutare e alcuni elementi importanti della squadra vanno in scadenza o entrano nell’ultimo anno di contratto, per cui la domanda rimane:
Now Or Never? Solo questi Playoff potranno darci una risposta.

